Intelletto
Scorci letterari
in-tel-lèt-to
Significato Facoltà di intendere concetti ed elaborare giudizi
Etimologia dal latino intellectus, propriamente participio passato del verbo intelligere ‘comprendere, intendere’.
Parola pubblicata il 10 Aprile 2017
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
L’intelletto è la facoltà alla base del fenomeno e della qualità dell’intelligenza. Il verbo latino intelligere nasce come composto di inter- e lègere (scegliere), e descrive quindi originariamente l’atto del ‘trascegliere’, dello scegliere con cura fra più persone o cose. L’intelletto è allora la facoltà che permette di cogliere i nervi e i tendini della realtà, di discernere in concetti le linee di forza delle cause e degli effetti, e quindi di formulare giudizi accorti, saggi, logici e aderenti al vero.
Non stupisce che questa facoltà, per metonimia, arrivi a significare l’intera mente, e anche personaggi dotati di straordinario ingegno e ricchezza intellettuale (alla cerimonia vengono premiati i più grandi intelletti della città). Stupisce e meraviglia invece l’armonia speculare fra l’intelligenza con cui è costruita questa parola e il suo significato d’intelligenza.
Va notato che ‘intelletto’, in un registro elevato, può essere usato anche propriamente come participio passato del verbo intelligere (sempre rimasto un latinismo), e quindi col significato di ‘compreso, inteso’. Si invita a non perorare più perché abbiamo già intelletto quel che dovevamo, ci si dispiace che nessuno abbia intelletto quello che volevamo.
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(Dante, Paradiso IV, vv. 121-126)
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Questo canto è tra i meno noti, perché di contenuto dottrinale. Tuttavia il genio di Dante riesce a dare concretezza anche ai processi più astratti del pensiero.
Qui in particolare ci descrive la ricerca della verità: l’intelletto formula continue domande, una dopo l’altra, finché non raggiunge la verità ultima (oltre la quale «nessun vero si spazia»). Ossia la verità esistenziale, il senso stesso della vita. Infine l’intelletto si accoccola dentro «il vero», come un animale (fera) nella sua tana (lustra).
Già questa raffigurazione è graziosa: sembra quasi di vedere il pensiero muoversi sinuoso e furtivo, come un animaletto. Inoltre la bramosità della «fiera» esprime bene l’ardore conoscitivo che muove l’uomo. Peraltro l’intelletto implica etimologicamente un “entrare dentro” le cose, quindi l’immagine della tana è assai appropriata.
Non solo: Dante connota così la verità come dimora naturale della mente. Nella sua visione, infatti, l’intelletto è fatto proprio per cercare il senso delle cose, e soprattutto è in grado di trovarlo. In caso contrario il suo desiderio sarebbe «frustrato », e ciò per Dante è inammissibile.
Oggi questa tranquilla sicurezza è venuta meno: il dubbio spesso appare non come un ausilio alla conoscenza, ma come un’inquietudine senza soluzione. Perciò, secondo Montale, le uniche certezze possibili sono in negativo: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.»
Tuttavia il desiderio di verità non è diminuito, anzi si è fatto ancor più pressante. Così, nella poesia pascoliana, l’intelletto non ha più una «tana»: diventa simile al vento, che volta le pagine di un libro quasi fosse in cerca di un’impossibile risposta. Dunque il suo moto è sempre irrequieto, e forse vano; eppure in esso risiede la grandezza dell’uomo, come già diceva Dante cinquecento anni prima:
Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.