Ingegno
Scorci letterari
in-gé-gno
Significato Intelligenza creativa e pratica; persona geniale, talentuosa
Etimologia dal latino ingenium ‘disposizione naturale, carattere, indole’, ma anche ‘intelligenza, acume’ e ‘ispirazione, trovata’. Composto da in- ‘dentro’ e da un derivato del verbo gignere ‘generare’.
Parola pubblicata il 07 Novembre 2016
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Ecco, questa è una parola davvero corposa. Sappiamo che l’ingegno è un tipo d’intelligenza che unisce la capacità creativa a un atteggiamento pratico: c’è intuito e perspicacia, nell’ingegno, pensiero versatile, padronanza degli espedienti. Scioglie i problemi, supera i cimenti. L’ingenium latino ci si presenta come una disposizione personale, un carattere, un’indole: e questo ci dà la dimensione innata dell’ingegno - che poi diventa l’intelligenza, l’acume, ossia l’ingegno che conosciamo noi. Si apprezza l’ingegno di una soluzione semplice e recisa, nella complessa opera poetica l’artista infonde tutto il suo ingegno, e l’ironica alzata d’ingegno non è poi così penetrante come vorrebbe.
Per metonimia l’ingegno diventa poi la persona dotata di ingegno alto: al congresso si riuniscono i migliori ingegni di una certa disciplina. E se si vuole scegliere un registro letterario, l’ingegno può anche prendere le pieghe dei significati latini: l’amico ha un ingegno bonario (nel senso di indole), il film stupisce con mille ingegni (nel senso di trovata).
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(Dante, Inferno X, vv. 58-69)
Piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
[…] Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Qui Dante dialoga con il padre di Guido Cavalcanti, famoso poeta e suo carissimo amico. Guido, durante la stesura della Commedia, è già morto, ma nella finzione letteraria è ancora vivo; ed è, come suo padre, un “eretico” (oggi lo chiameremmo uno scettico).
Quanto a intelligenza, Dante stesso ci dice che l’amico gli sta alla pari: il suo peccato, però, è stato quello di assolutizzare l’ingegno, a scapito di altri fattori (“eresia” significa proprio scelta).
Per Dante, infatti, la verità è relazionale, perché coincide con una Presenza incarnata (in Beatrice e, più direttamente, in Cristo). Guido invece è l’emblema di una conoscenza razionalistica: il suo ingegno si considera autosufficiente, e tenta di ridurre tutta la realtà alle proprie categorie.
Non a caso l’autore ci racconta l’eresia in una prospettiva non filosofica, ma affettiva. Guido, secondo lui, ha avuto “in disdegno” la Grazia, ossia non ha colto il senso profondo dell’amore: perciò la sua morte ci mette di fronte al dramma di relazioni spezzate per sempre.
Innanzitutto l’amicizia con Dante, che emerge da un lapsus rivelatore. L’uso del tempo passato, infatti, è narrativamente scorretto. Ma l’autore sente a tal punto il dolore per la perdita (forse definitiva) dell’amico, che proprio non ce la fa ad usare il tempo presente.
Ciò suscita l’umanissima disperazione di Cavalcanti, che chiede: “Allora mio figlio è morto?” E dietro di lui intravvediamo un altro padre, che piange di fronte alla morte (spirituale, oltre che fisica) della sua creatura, senza poterla impedire.
In questa situazione, “un imprevisto è la sola speranza” (come scriverà Montale). Se l’ingegno pretende di dominare tutto, finisce per avvolgersi su se stesso, come Dante nella selva oscura. Ma, se si apre a un incontro, può dare inizio a un cammino impensato (“Da me stesso non vengo”). E Dante si aggrappa alla speranza che, magari in extremis, ciò sia accaduto anche a Guido: da qui la forza gigantesca di quel piccolo “forse”.