SignificatoSparizione totale di qualcosa da un posto per far pulito; riordino, pulizia
Etimologia latinismo derivato dal Libro dei Salmi 42, 2: quare me repulisti? ‘perché mi hai respinto?’.
Papa Giovanni XXIII convocò nel ‘59 il Concilio Ecumenico Vaticano II. Fra i punti di maggior impatto innovativo che ebbe come risultato questo Concilio c’è il superamento del latino come lingua unica di celebrazione della messa cattolica: erano secoli che il popolo (ogni popolo) seguiva le liturgie capendoci pochissimo, e infatti le formule dei sacerdoti in Italia erano materia viva a cui attingere per trovare espressioni da storpiare e su cui scherzare.
Per l’appunto Paolo VI, secondo lo spirito del Concilio, nel ‘69 pubblicò un nuovo messale che espungeva il Salmo 42 dall’ingresso della messa (era pronunciato proprio in principio, quando l’attenzione, si sa, è più alta): fino ad allora era stato un punto fermo della liturgia, già prima di essere canonizzato nella messa tridentina (l’assetto liturgico uscito dal Concilio di Trento, finito nel 1563).
Dai, si vede da lontano che ‘repulisti’ è un verbo. Anzi, assomiglia come un sosia a ‘ripulisti’, seconda persona singolare del passato remoto di ‘ripulire’. E in effetti nasce dal versetto che recita quare me repulisti? del Salmo 42 che dicevamo — il passaggio struggente di una drammatica invocazione in cui il fedele si sente dilaniato, solo davanti al male del mondo. Qui è appunto un tempo verbale ‘perfetto’ (tempo traducibile anche con un passato remoto), alla seconda persona singolare. In particolare, lo è del verbo repèllere, cioè (come suona anche in italiano) ‘respingere, rigettare, rifiutare’. Quanto devono aver riso tutti quando alla prima persona è venuto in mente di usare il ‘repulisti’ del prete col senso di gran pulito, di sparizione totale, o quanto devono averla ammirata, che trovata! Assomiglia a ‘ripulisti’! Genio! E tanto universalmente consueto era il ‘repulisti’, e tanto comunemente suonava come ‘ripulisti’, che l’uso si è diffuso come il fuoco nell’erba secca: in italiano è attestato addirittura nel 1521.
È per questo che una parola che nasce dal ‘repellere’ finisce per avere a che fare con lo sgomberare, non perché la repulsione fa fare pulito, o ci fa spingere via la roba. Ed è sempre per questo che il repulisti ha un certo tono popolare: è quello che sprezzantemente veniva chiamato un latinismo plebeo. Però questa nominalizzazione del verbo fissato in un tempo passato conquista degli effetti interessanti: l’azione prende un rilievo quasi cronachistico, «Ho fatto un repulisti» è un’espressione che significa il far totalmente pulito svuotando o sgomberando del tutto, e messo così è qualcosa che ci potremmo immaginare da segnare in un annale, o come qualcosa che potrebbe ricordarsi la nonna, o come parte di un rito stagionale. Il repulisti non risparmia le carte importanti che erano in mezzo al ciarpame, mi dico sempre che dovrei proprio fare un bel repulisti in soffitta, e non ci sono problemi con gli avanzi perché gli ospiti hanno fatto onore alla cena con un repulisti totale.
Papa Giovanni XXIII convocò nel ‘59 il Concilio Ecumenico Vaticano II. Fra i punti di maggior impatto innovativo che ebbe come risultato questo Concilio c’è il superamento del latino come lingua unica di celebrazione della messa cattolica: erano secoli che il popolo (ogni popolo) seguiva le liturgie capendoci pochissimo, e infatti le formule dei sacerdoti in Italia erano materia viva a cui attingere per trovare espressioni da storpiare e su cui scherzare.
Per l’appunto Paolo VI, secondo lo spirito del Concilio, nel ‘69 pubblicò un nuovo messale che espungeva il Salmo 42 dall’ingresso della messa (era pronunciato proprio in principio, quando l’attenzione, si sa, è più alta): fino ad allora era stato un punto fermo della liturgia, già prima di essere canonizzato nella messa tridentina (l’assetto liturgico uscito dal Concilio di Trento, finito nel 1563).
Dai, si vede da lontano che ‘repulisti’ è un verbo. Anzi, assomiglia come un sosia a ‘ripulisti’, seconda persona singolare del passato remoto di ‘ripulire’. E in effetti nasce dal versetto che recita quare me repulisti? del Salmo 42 che dicevamo — il passaggio struggente di una drammatica invocazione in cui il fedele si sente dilaniato, solo davanti al male del mondo. Qui è appunto un tempo verbale ‘perfetto’ (tempo traducibile anche con un passato remoto), alla seconda persona singolare. In particolare, lo è del verbo repèllere, cioè (come suona anche in italiano) ‘respingere, rigettare, rifiutare’. Quanto devono aver riso tutti quando alla prima persona è venuto in mente di usare il ‘repulisti’ del prete col senso di gran pulito, di sparizione totale, o quanto devono averla ammirata, che trovata! Assomiglia a ‘ripulisti’! Genio! E tanto universalmente consueto era il ‘repulisti’, e tanto comunemente suonava come ‘ripulisti’, che l’uso si è diffuso come il fuoco nell’erba secca: in italiano è attestato addirittura nel 1521.
È per questo che una parola che nasce dal ‘repellere’ finisce per avere a che fare con lo sgomberare, non perché la repulsione fa fare pulito, o ci fa spingere via la roba. Ed è sempre per questo che il repulisti ha un certo tono popolare: è quello che sprezzantemente veniva chiamato un latinismo plebeo. Però questa nominalizzazione del verbo fissato in un tempo passato conquista degli effetti interessanti: l’azione prende un rilievo quasi cronachistico, «Ho fatto un repulisti» è un’espressione che significa il far totalmente pulito svuotando o sgomberando del tutto, e messo così è qualcosa che ci potremmo immaginare da segnare in un annale, o come qualcosa che potrebbe ricordarsi la nonna, o come parte di un rito stagionale. Il repulisti non risparmia le carte importanti che erano in mezzo al ciarpame, mi dico sempre che dovrei proprio fare un bel repulisti in soffitta, e non ci sono problemi con gli avanzi perché gli ospiti hanno fatto onore alla cena con un repulisti totale.