Retorico

re-tò-ri-co

Significato Relativo all’arte della retorica; vuoto, ampolloso, ingannevole

Etimologia voce dotta recuperata dal latino rhetoricus, dal greco rhetorikós, da rhétor ‘retore, maestro di eloquenza’, dal tema di éiro, ‘parlare’.

Da un lato la retorica è considerata una delle arti più potenti dell’essere umano, la vetta dell’uso efficace della lingua come strumento sociale. Dall’altro è giudicata una sentina di vizio, d’inganno, di superficialità. Un’ambivalenza molto normale: da un lato il sofisticato apre molte porte, dall’altro è appunto sofisticato, alterato rispetto allo spontaneo — resta sempre l’impressione che le parole pensate siano pensate per tradire e frodare, e che solo i grugniti possano essere davvero schietti.

Il dato etimologico curioso ed eloquente da cui partire, per considerare la qualità del retorico, è che l’arte della retorica, l’arte del parlar ein pubblico — rhetoriké tékhne in greco — si astrae a partire da un ruolo, da una figura, quella del rètore. Il rhétor è l’oratore, il maestro d’eloquenza, e il suo nome d’agente è tratto in tutta semplicità dalla radice del verbo éiro, ‘parlare’. Il retore è quindi il parlatore per eccellenza, e da lui si ricava tutta l’ampiezza generale della sua arte retorica.

Ora, se un discorso pronunciato in pubblico funziona, è senz’altro retorico. L’efficacia persuasiva modulata attraverso regole espressive è retorica, e anche il discorso apparentemente più grezzo, che però riesca a sortire l’effetto voluto in chi lo ascolta, ne mette in pratica le regole. Dopotutto, la maestria nel parlare non è mica sempre vezzosa, non si manifesta mica solo nel cesello della ricercatezza — e la vera finezza retorica può stare anche nel dare l’impressione di dire in modo terra terra pane al pane e vino al vino. Quindi spregiare un intervento dicendo che è un discorso retorico avrebbe poco senso: ogni discorso che riesce ad arrivare al suo punto è retorico. Ma il fatto è che non di rado il ricorso alla retorica, ossia la costruzione intellettuale dell’orazione, rende il discorso ampolloso, magniloquente; quando la sofisticazione del discorso ha questo esito, il suo grande, svolazzante risuonare dà una forte impressione di vacuità, di superficialità, e di ingannevolezza.

Così se diciamo che qualcuno si esprime in modo retorico, che le parole scelte dall’amministratore sono molto retoriche, che le critiche ricevute sono retoriche e di posa, il nostro tono è spregiativo. Affermiamo che l’espressione, le parole, le critiche sono enfatiche e pompose, che non vanno o non vogliono andare al sodo.
Forse il punto importante da trarne è che la retorica buona… è quella che non si fa notare come retorica.

Tolta di mezzo quest’anfisbena che da una parte ha la finezza consumata e dall’altra il raggiro vuoto, l’aggettivo ‘retorico’ ci indica in maniera anche neutra qualcosa di relativo a quest’arte. Ad esempio le domande retoriche spiccano perché non sono domande poste schiettamente per ottenere un’informazione: chi fa la domanda retorica sa già la risposta, come anche chi l’ascolta. La domanda retorica viene posta per fini retorici, perché fa partecipare chi ascolta con una risposta che non richiede di essere esplicitata, e che però muove inevitabilmente nella direzione voluta da chi pone la domanda. Non è un meccanismo del potere strabiliante?
E non possiamo non considerare le figure retoriche. Il balletto classico si articola in una grande quantità di passi, pose o figure. Le figure retoriche sono ‘figure’ nello stesso senso. Sono dei ‘passi’ retorici codificati da millenni, con nomi soprattutto greci (dal chiasmo all’iperbato, dalla litote alla preterizione, ma ce ne sono centinaia, e ne abbiamo trattate a dozzine). Alcuni sono buoni solo per le vette dell’alta poesia, altri del tutto quotidiani, testimonianza di quanto la retorica sia pervasiva. E la retorica, consapevole o no, non può farne a meno.

Parola pubblicata il 01 Marzo 2025