SignificatoChe conduce una vita disordinata, sregolata, sfrenata, imprudente
Etimologia propriamente, participio passato di scapestrare, derivato di capestro ‘cappio’, dal latino capistrum ‘cappio, cavezza’.
Eccola qua, una persona senza freni, senza ordine. Criterio? Poco. Prudenza? Figuriamoci. Probabilmente è anche spettinata. E la ruvidità rotta del suono della parola non fa che colorire ulteriormente il concetto. Ma da dove salta fuori? Per capirlo dobbiamo prendere una corda e farci un nodo.
Il capestro, con la conferma dei dizionari, è innanzitutto la corda annodata per l’impiccagione. Significato non dei più ameni — che dà luogo a significati figurati altrettanto lepidi come ‘gente da capestro’ per indicare chi indulge in una vita di delinquenza. Ma il capestro non è solo questo: ha anche un significato vitale, lavorativo, per quanto risulti sempre stringente. Infatti è anche la cavezza, la corda con cui si lega il collo delle bestie.
In questo caso ‘mettere al capestro’ non significa giustiziare, ma sottomettere, aggiogare, piegare. Ed è questo capestro che lo scapestrato fugge. Non è chi abbia svicolato fortunosamente il cappio del boia, ma chi s’è tolto la cavezza — che in un’aporia della nostra cultura da un lato asservisce, dall’altro nobilita, da un lato è segno di uno sfruttamento bestiale ma dall’altro toglierlo è da gente scriteriata, sfrenata.
È così che lo scapestrato acquista il suo tratto di disordine. Addirittura, un tempo era un attributo buono anche per gruppi, centri e organizzazioni in tumulto — si poteva parlare di contrade, di città scapestrate. Oggi è un attributo più personale, e come abbiamo potuto annusare mostra una certa complessità.
Se parlo di quello scapestrato di mio cugino, che pensa solo a fare le gare di moto, se parlo del modo in cui una ragazza scapestrata è diventata sindaca del paese, o dello storico gruppo scapestrato di cantanti, non mi sto limitando a marcare un loro modo d’essere licenzioso, sregolato, disordinato. Ovviamente tengo fermo il nocciolo tradizionale di quei tratti — dissoluto, incontinente, imprudente —, ma nella scelta dell’attributo dello scapestrato ci può essere di più, è una scelta che può rivelare una considerazione più sfaccettata. Perché nello scapestrato c’è ingenuità, sì, e c’è salute, energia, libertà — giudicata perfino con una vaga marezzatura d’invidia o nostalgia. Il cugino, la ragazza, il gruppo di cantanti, hanno una vitalità alata, per quanto scomposta.
È una parola che riesce a darci un taglio di mondo tridimensionale, senza ridurlo, senza sopprimerne l’ambiguità, accogliendo il modo sottile in cui si contraddice. Proprio una parola ricca.
Eccola qua, una persona senza freni, senza ordine. Criterio? Poco. Prudenza? Figuriamoci. Probabilmente è anche spettinata. E la ruvidità rotta del suono della parola non fa che colorire ulteriormente il concetto. Ma da dove salta fuori? Per capirlo dobbiamo prendere una corda e farci un nodo.
Il capestro, con la conferma dei dizionari, è innanzitutto la corda annodata per l’impiccagione. Significato non dei più ameni — che dà luogo a significati figurati altrettanto lepidi come ‘gente da capestro’ per indicare chi indulge in una vita di delinquenza. Ma il capestro non è solo questo: ha anche un significato vitale, lavorativo, per quanto risulti sempre stringente. Infatti è anche la cavezza, la corda con cui si lega il collo delle bestie.
In questo caso ‘mettere al capestro’ non significa giustiziare, ma sottomettere, aggiogare, piegare. Ed è questo capestro che lo scapestrato fugge. Non è chi abbia svicolato fortunosamente il cappio del boia, ma chi s’è tolto la cavezza — che in un’aporia della nostra cultura da un lato asservisce, dall’altro nobilita, da un lato è segno di uno sfruttamento bestiale ma dall’altro toglierlo è da gente scriteriata, sfrenata.
È così che lo scapestrato acquista il suo tratto di disordine. Addirittura, un tempo era un attributo buono anche per gruppi, centri e organizzazioni in tumulto — si poteva parlare di contrade, di città scapestrate. Oggi è un attributo più personale, e come abbiamo potuto annusare mostra una certa complessità.
Se parlo di quello scapestrato di mio cugino, che pensa solo a fare le gare di moto, se parlo del modo in cui una ragazza scapestrata è diventata sindaca del paese, o dello storico gruppo scapestrato di cantanti, non mi sto limitando a marcare un loro modo d’essere licenzioso, sregolato, disordinato. Ovviamente tengo fermo il nocciolo tradizionale di quei tratti — dissoluto, incontinente, imprudente —, ma nella scelta dell’attributo dello scapestrato ci può essere di più, è una scelta che può rivelare una considerazione più sfaccettata. Perché nello scapestrato c’è ingenuità, sì, e c’è salute, energia, libertà — giudicata perfino con una vaga marezzatura d’invidia o nostalgia. Il cugino, la ragazza, il gruppo di cantanti, hanno una vitalità alata, per quanto scomposta.
È una parola che riesce a darci un taglio di mondo tridimensionale, senza ridurlo, senza sopprimerne l’ambiguità, accogliendo il modo sottile in cui si contraddice. Proprio una parola ricca.