SignificatoFrammento appuntito e rigido staccatosi da un corpo
Etimologia dal latino schìdia, prestito dal greco tardo skhídia, plurale di skhídion ‘scheggia’, derivato di schízein ‘fendere, rompere, spezzare’.
Dico che sul monopattino elettrico vado veloce come una scheggia, eppure la scheggia è lenta, quando mi ferisce dal legno ruvido che sto accarezzando. Di che schegge stiamo parlando? Rieccoci davanti a qualcosa di cui facciamo esperienza spontanea, ma il cui nome nasconde delle intimità particolari.
Si parte da un dato che pare semplice: la scheggia è un frammento, specie appuntito, magari tagliente, che apparteneva a un corpo solido, che è finito spezzato o da cui si è semplicemente staccato. È un termine che nasce con l’italiano, germogliando nel volgare: viene dall’antica parola latina schìdia, che fu presa in prestito dal greco tardo (quello che sarebbe sfumato nel bizantino), e che in particolare deriva da un verbo molto fertile, schízein. Questo significa fendere, rompere, spezzare, ed è quello che ritroviamo nello scisma, e in quei composti che iniziano per schizo-.
La rottura da cui scaturisce la scheggia però non è in tutto uguale a quella del frammento, del brandello, del pezzo, della scaglia. Ha delle particolarità sottili che dominiamo senza pensarci. Pensiamo al gomito che inavvertitamente spinge giù il vaso Ming: se si infrange in pezzi di dimensioni simili non diremo che si è ridotto in schegge, diremo che è andato in pezzi; sono più volentieri schegge quelle che saltano da una sbeccatura (quando il resto del corpo resta integro), o i pezzi più piccoli e acuminati fra i frammenti. Dev’essere piccola, solida e rigida, per essere una scheggia — mentre un brandello può essere morbidissimo. E tende ad essere più appuntita rispetto alla scaglia, che è più piatta— vediamo benissimo la differenza fra una scaglia di cioccolata e una scheggia di cioccolata, fra una scaglia di parmigiano e una scheggia di parmigiano.
Ha quindi delle tendenziali peculiarità materiali proprie. Ma soprattutto, più di ogni altro sinonimo sa raccontarsi come risultato di uno schianto. Schegge partono dal legno tagliato con l’ascia, il vetro si rompe e siamo investiti dalle schegge, e ogni colpo di mazza fa schizzare schegge dalla pietra da sgrossare. Qui quasi non si danno sinonimi, e il suono occluso della scheggia contribuisce a tratteggiare questa violenza. E già in queste immagini vediamo il nesso con la velocità che ci porta a dire ‘è una scheggia’ quando s’intende che qualcuno o qualcosa è veloce. Ma non sono quelle che hanno fatto la differenza.
È da quando la guerra ha iniziato ad avere più dimestichezza con gli esplosivi che le schegge hanno preso un altro aspetto: se la scheggia di legno al massimo del peggio può finire in un occhio a qualcuno, con danni relativi, le schegge metalliche di cui sono corredati gli ordigni esplosivi hanno effetti mortali su vasti gruppi, e tutta un’altra rapidità. Se queste schegge si incontrano dall’Ottocento, il paragone in termini di velocità appartiene alla storia recente — e a dirla tutta, espressioni come ‘veloce come una scheggia’ pare abbiano trovato il loro successo nazionale solo negli anni Novanta.
Sinceramente, pare difficile che non ci sia di mezzo la suggestione bellica. Ma le parole seguono la realtà, e meno schegge di granate voleranno per il mondo, più il veloce come una scheggia ci parlerà del lavoro sulla pietra e sul legno, da cui la scheggia può saettare via — o su cui può restare, silenziosa e pacifica, in attesa del nostro dito.
Dico che sul monopattino elettrico vado veloce come una scheggia, eppure la scheggia è lenta, quando mi ferisce dal legno ruvido che sto accarezzando. Di che schegge stiamo parlando? Rieccoci davanti a qualcosa di cui facciamo esperienza spontanea, ma il cui nome nasconde delle intimità particolari.
Si parte da un dato che pare semplice: la scheggia è un frammento, specie appuntito, magari tagliente, che apparteneva a un corpo solido, che è finito spezzato o da cui si è semplicemente staccato. È un termine che nasce con l’italiano, germogliando nel volgare: viene dall’antica parola latina schìdia, che fu presa in prestito dal greco tardo (quello che sarebbe sfumato nel bizantino), e che in particolare deriva da un verbo molto fertile, schízein. Questo significa fendere, rompere, spezzare, ed è quello che ritroviamo nello scisma, e in quei composti che iniziano per schizo-.
La rottura da cui scaturisce la scheggia però non è in tutto uguale a quella del frammento, del brandello, del pezzo, della scaglia. Ha delle particolarità sottili che dominiamo senza pensarci. Pensiamo al gomito che inavvertitamente spinge giù il vaso Ming: se si infrange in pezzi di dimensioni simili non diremo che si è ridotto in schegge, diremo che è andato in pezzi; sono più volentieri schegge quelle che saltano da una sbeccatura (quando il resto del corpo resta integro), o i pezzi più piccoli e acuminati fra i frammenti. Dev’essere piccola, solida e rigida, per essere una scheggia — mentre un brandello può essere morbidissimo. E tende ad essere più appuntita rispetto alla scaglia, che è più piatta— vediamo benissimo la differenza fra una scaglia di cioccolata e una scheggia di cioccolata, fra una scaglia di parmigiano e una scheggia di parmigiano.
Ha quindi delle tendenziali peculiarità materiali proprie. Ma soprattutto, più di ogni altro sinonimo sa raccontarsi come risultato di uno schianto. Schegge partono dal legno tagliato con l’ascia, il vetro si rompe e siamo investiti dalle schegge, e ogni colpo di mazza fa schizzare schegge dalla pietra da sgrossare. Qui quasi non si danno sinonimi, e il suono occluso della scheggia contribuisce a tratteggiare questa violenza. E già in queste immagini vediamo il nesso con la velocità che ci porta a dire ‘è una scheggia’ quando s’intende che qualcuno o qualcosa è veloce. Ma non sono quelle che hanno fatto la differenza.
È da quando la guerra ha iniziato ad avere più dimestichezza con gli esplosivi che le schegge hanno preso un altro aspetto: se la scheggia di legno al massimo del peggio può finire in un occhio a qualcuno, con danni relativi, le schegge metalliche di cui sono corredati gli ordigni esplosivi hanno effetti mortali su vasti gruppi, e tutta un’altra rapidità. Se queste schegge si incontrano dall’Ottocento, il paragone in termini di velocità appartiene alla storia recente — e a dirla tutta, espressioni come ‘veloce come una scheggia’ pare abbiano trovato il loro successo nazionale solo negli anni Novanta.
Sinceramente, pare difficile che non ci sia di mezzo la suggestione bellica. Ma le parole seguono la realtà, e meno schegge di granate voleranno per il mondo, più il veloce come una scheggia ci parlerà del lavoro sulla pietra e sul legno, da cui la scheggia può saettare via — o su cui può restare, silenziosa e pacifica, in attesa del nostro dito.