Solfeggio

sol-fég-gio

Significato Disciplina per imparare a leggere la musica

Etimologia dalle sillabe della solmisazione Sol-Fa.

Il solfeggio non è solo uno studio per specialisti, perché nel resto del mondo occidentale è studiato a scuola e praticato nelle chiese, almeno a un livello di base. Eppure è una trovata tutta italiana.

Oggi si distingue il solfeggio cantato da quello parlato. Quest’ultimo può risultare molto noioso proprio perché privo di fascino musicale. Ma non fu sempre così.

Il termine nacque dall’unione del nome delle syllabae Sol e Fa della solmisazione, un complesso sistema di lettura dei suoni basato su sole sei note, anziché sette del sistema moderno, la cui paternità è tradizionalmente attribuita al monaco Guido d’Arezzo.

Queste antiche scale si chiamano esacordi e sono di tre tipi: esacordo duro (con inizio dalla nota Sol):

esacordo naturale (da Do):

esacordo molle (da Fa):

In ogni tipo di esacordo la successione degli intervalli tra le note è costante, e per questo motivo i tre esempi audio sembrano uguali.

Per facilitare la memorizzazione delle sillabe agli allievi, il maestro le indicava sulla propria mano; il metodo prese il nome di ‘mano guidoniana’.

La difficoltà della solmisazione, anche per un musicista moderno, consiste nel fatto che i sei suoni, qualunque sia il loro inizio, si chiamino sempre: ‘Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La’, (Ut=antico nome del Do) desunti dalle sillabe iniziali dei versi di un famoso inno in Canto Gregoriano a S. Giovanni Battista, la cui festività ricorre il 24 giugno.

La notazione precedente alla solmisazione era alfabetica, mantenuta fino ai giorni nostri nel mondo anglosassone (A=La; B=Si; C=Do etc.). Le lettere si chiamavano litterae o claves. La G (Sol), la C (Do) e la F (Fa) corrispondevano alle litterae iniziali degli esacordi, e in un lento processo calligrafico si trasformarono nelle tre chiavi (claves, appunto) ancora oggi in uso: la chiave di violino, o di Sol, la chiave di Do e la chiave di basso, o di Fa.

Con il passare dei secoli, il ‘solfizare’ del Rinascimento, ossia la lettura cantata tramite la solmisazione, nel Seicento si estese per sineddoche a indicare ogni esercizio vocale. I maestri di canto dell’epoca erano musicisti e scrivevano estemporaneamente per i loro allievi composizioni polifoniche senza testo, di solito a due voci, che venivano stampate raramente, perché erano composte sulla ‘cartella’, una tavoletta di pietra, legno o gesso, su cui si potevano appuntare e poi cancellare gli esercizi musicali. Un po’ come a scuola: quante spiegazioni ed esercizi alla lavagna, ma nessuno li stampa…

Lo studio del solfeggio di solito non piaceva agli allievi. Pier Francesco Tosi esortò perciò i giovani musicisti a imparare a “solfeggiar la scaletta”, ma raccomandò ai maestri che i solfeggi fossero ‘naturali’ e ‘gustosi’, perché lo studente si applicasse a «studiarli con piacere, e ad impararli senza noia» (Opinioni de’ cantori antichi e moderni, 1723).

Il metodo pedagogico italiano fu ampiamente diffuso ed emulato nel XVIII secolo. I francesi si interessarono ai metodi di insegnamento italiani e produssero numerose pubblicazioni; la prima fu Solfèges d’Italie avec la basse chiffrée (1772) con esempi di Scarlatti, Porpora e altri. Nel 1827 uscirono anche i famosi Gorgheggi e solfeggi di Rossini.

Perciò il solfeggio non è sempre la solita solfa ma, nonostante la difficoltà iniziale, potrà condurre a leggere e a comprendere splendide pagine musicali, permettendo di individuarne la divisione ritmica e la struttura melodica. Insomma, anche in questo caso, per aspera ad astra!

Parola pubblicata il 21 Giugno 2020

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