> Grammatica dubbiosa

Si scrive “sé stesso” o “se stesso”?

La regola che esclude l’accento si fonda su presupposti paradossali che è facile smontare. Che cosa ci faresti alla fine della vita con gli accenti risparmiati?

Mi capita spesso di scrivere “sé stesso” e di venire corretto. E la correzione avviene con un mantra: “se stesso si scrive senza accento perché in questa locuzione il sé non ha bisogno del solito accento per distinguersi dal se-congiunzione." Inquadriamo la questione.

La regola, l'eccezione, la ragione

Esiste una regola: il pronome riflessivo di terza persona 'sé' si scrive con l'accento. Invece non lo vuole il 'se' quando, in casi determinati, è pronome nelle veci del 'si' (se l'è mangiato, se n'è andato), né quando, soprattutto, è congiunzione (se non te lo mangi..., se non te ne vai...). Stando a questa regola 'sé stesso', 'sé medesimo' andrebbero accentati. Ma è invalsa un'eccezione forte.

Poiché in espressioni come 'sé stesso' e 'sé medesimo', quel 'se' non si troverebbe nelle condizioni di poter essere confuso con altro, specie con una congiunzione, allora in espressioni del genere il 'se' va scritto senza accento. Se stesso, se medesimo e simili.

Si tratta di un uso invalso e preponderante, sì, ma senza alcuna ragione. Per abbracciarlo dovremmo infatti considerare un valore il 'risparmio dell'accento'. Dovremmo pensare non di star cercando una regola semplice e coerente, ma il compromesso che permette di risparmiare il maggior numero di accenti. A me non li fanno pagare. E non so che cosa ci fa uno, alla fine della sua vita, con gli accenti risparmiati — quante seppie si salvano col risparmio d'inchiostro, quanti kilowatt si possono orientare altrove non accendendo accenti sugli schermi.

Un'eccezione eccezionale

Una buona norma come "il sé pronome riflessivo di terza persona si scrive sé, con l'accento" è buona perché è semplice e chiara. E l'eccezione che lo ritiene superfluo in certi casi è un'eccezione del tutto isolata — è un'eccezione eccezionale.

Pensiamo ad altri monosillabi che si scrivono nello stesso modo e sono distinti da un accento: 'la' articolo e 'là'' avverbio. Utile: così se leggo "la mela è là" non mi trovo a dover decifrare un'affermazione criptica, che potrebbe essere tronca, come "la mela è la". Ma non sempre si rischia di confondersi: se leggo "la mela è rotolata la sotto", non mi posso sbagliare, il primo è un articolo, il secondo un avverbio di luogo. Ma a nessuno viene in mente di estendere all'intero sistema della lingua la logica che ha determinato (e con cui si difende strenuamente) l'eccezione all'accentazione del "se stesso". Eppure anche nel "là sotto" si potrebbe risparmiare, e tutte quelle seppie e quei kilowatt…

E vogliamo parlare del 'da', che è preposizione senza accento e verbo dare (dà) con accento? Chi è che leggendo "Maria da un piatto di pasta a sua madre" penserebbe che, con ellissi del verbo, Maria procede da un piatto di pasta fino alla propria madre? Chi si blocca nella lettura se scrivo che "mio fratello mi da una mano"? Uno scialacquamento di accenti, di un consumismo vergognoso: questi accenti potevano scorrazzare sui prati e nei boschi in natura, e noi invece li prendiamo come farfalle e li appuntiamo esosamente sul foglio. O no?

La consuetudine che cerca la quadratura del cerchio

Il risparmio degli accenti non è un faro della lingua. Gli accenti ci possono servire per distinguere parole omografe, cioè scritte uguali, rendendo più facile la lettura. Non è facile stabilire convenzioni di questo genere, e non è facile conservarle coerenti. Porre eccezioni rispetto a una convenzione generale ha poco senso, specie se è fra quelle (rare) che danno pochi problemi.

Ma le eccezioni stesse sono norme, e possono essere molto diffuse e radicate, come l'eccezione del "se stesso". Scrivere "se stesso" senza accento non è sbagliato: la consuetudine parla chiaro. Lo fanno tante persone, anche dotte. Ma "sé stesso" scritto con l'accento non è un errore, è una forma preferita da molti eminenti linguisti, e per motivi di coerenza normativa è la soluzione migliore.


Ci basti questa breve esemplificazione per intendere che avventurarsi nelle regole dell'accentazione significa sconfinare in una terra di convenzioni arbitrarie che tentano in qualche modo di distinguere la funzione di suoni uguali e rendere immediata la comprensione al lettore; terre in cui la coerenza perfetta non abita, in cui i criteri per mettere o no un accento si sconfessano a vicenda. E quindi terre in cui è particolarmente rilevante essere indulgenti: non sono regole scolpite nella pietra né scritte sull'acqua, ma consuetudini oscillanti alla ricerca della quadratura del cerchio.

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