> Lingue e popoli

L’osco, questo strano conosciuto

Storia e collocazione di una lingua e di un popolo italico meno famoso, che si intreccia profondamente con la storia romana, e che ha lasciato un’eredità riconoscibile nella lingua parlata ancora oggi in Italia.

Esplorando l'etimologia delle parole entriamo in contatto con lingue e popoli del passato remoto e prossimo che è difficile mettere bene a fuoco. Con questi articoli cercheremo di chiarirci le idee, di volta in volta, su un popolo e una lingua.


A tutti sarà capitato di sentire parlare, anche solo di sfuggita, del popolo degli 'Osci' o 'Oschi', e della lingua osca, e magari avrà inteso che si tratta di un'antica cultura della nostra penisola. Ma di preciso di che cosa stiamo parlando? Di quale popolo, di quale lingua? E quale è l'eredità che ci ha lasciato, l'impronta che persiste nell'italiano dei nostri giorni? Lo scopriremo insieme, e queste domande ci porteranno a rievocare un passato dal sapore italiano o, meglio, italico, ma di respiro ampio. Basti pensare a parole di uso comunissimo come ʻpadreʼ o ʻdonoʼ le quali, in lingua osca, suonano come patír e dúnúm, non poi tanto diverse da lingue più note come il latino pătĕr e dōnum, il greco πατήρ (patḕr) e δῶρον (dṑron) il sanscrito dāna e pitṛ.

Da Messina all’Abruzzo

L’osco era una lingua indoeuropea e la sua vastissima area di estensione andava da Messina, attraverso il Bruttium (Calabria) e la Lucania (quasi tutta l’odierna Basilicata) e parte dell’area apula (attuale Puglia con l’esclusione della penisola salentina), fino alla Campania, al Samnium (pressappoco corrispondente a buona parte dell'attuale Molise, alla fascia meridionale dell'Abruzzo nonché ai settori nord-orientali della Campania) e alla regione costiera adriatica centrale popolata dai Frentani (Abruzzo adriatico meridionale). La lingua osca era parlata grosso modo dal VI-V secolo a.C. fino al processo di romanizzazione (circa I secolo a.C.), vale a dire l’egemonia politica di Roma sulle altre popolazioni italiche tra le quali, appunto, gli Osci. Il processo di romanizzazione ebbe come immediata conseguenza la cosiddetta latinizzazione linguistica, cioè la diffusione del latino rispetto alle altre preesistenti tradizioni linguistiche che concorsero alla preistoria dell’italiano.

In che senso possiamo già iniziare a parlare della preistoria della nostra lingua? Dobbiamo immaginare una prima fase in cui dominano le varietà linguistiche locali dell’Italia antica, tra le quali l’osco e, per citarne altre note, l’umbro, l’etrusco, il venetico, il messapico e simili; un secondo momento in cui assistiamo alla diffusione della lingua latina, non senza resistenza da parte dell’osco; un ultimo stadio caratterizzato dalla formazione e dall’affermazione dei volgari durante il medioevo e dalla transizione dal latino a questi ultimi.

Non solo greco e latino

Aulo Gellio, scrittore latino del II secolo d.C., nelle Noctes Atticae, XVII, 17, 1 si riferisce a Quinto Ennio, illustre poeta latino del III-II secolo a.C., affermando che Q. Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui Graece et Osce et Latine sciret. Questo significa che Ennio diceva di avere tre anime 'linguistiche' perché sapeva parlare il greco, l'osco (il cui termine designa un glottonomio, ossia la denominazione di lingua vera e propria) e il latino: al greco e al latino, lingue a noi familiari, si aggiunge una terza lingua che è proprio l’osco e che era contrassegnato da relazioni strette con gli altri due idiomi. Nei tria corda di Ennio si percepisce il vanto del trilinguismo e, contestualmente, la dignità conferita all’osco, lingua di prestigio culturale paritaria a latino e greco. Spesso sentiamo parlare di ʻosco-umbroʼ come di un unico concetto, un’unica categoria, ma è bene evidenziare che, nonostante le evidenti affinità esistenti tra le due lingue, non ci troviamo di fronte a varietà geografiche di una stessa lingua.

Il popolo osco e gli animali sacri

Gli Osci oppure Oschi: chi erano costoro? Un altro termine in uso per l’identificazione tout court di questo popolo è quello di ʻSannitiʼ, sebbene sia necessario sottolineare che questi ultimi, tra il VI e il V secolo a.C., iniziarono ad avere il controllo e ad imporsi sulle genti stanziate nei territori centrali della penisola italiana, tra cui gli Osci. Il termine ʻOsciʼ deriva da *ops-ci (l’asterisco indica la forma ricostruita di una parola non attestata) che rappresenta a sua volta un’antica popolazione, quella degli Opici, che  ̶  con ogni probabilità  ̶   sarebbe stata sottomessa proprio dagli Osci in seguito alla loro invasione nel mezzogiorno e, stando al Devoto, il significato può essere duplice: «popolo dei lavoratori» oppure «degli adoratori della dea Ops».

La religione per gli Osci, come d’altronde per qualsiasi altra popolazione antica, era fondamentale e strettamente legata alle attività quotidiane. A proposito della vita di tutti i giorni, mi viene in mente la guerra e il dio relativo. Abbiamo detto all’inizio che l’osco era esteso in una vasta area a partire da Messina: qui è stato portato dai Mamertini di Agatocle, ʻfigli di Mamerteʼ o ʻfigli di Mamersʼ, dio osco della guerra corrispondente a Marte. Erano soldati mercenari di origine per lo più campana e arruolati da Agatocle, tiranno di Siracusa, tra la fine del VI e l'inizio del III secolo a.C. Per fornire un’indicazione generale, diciamo che il pantheon italico non era poi tanto diverso da quello più famoso romano.


A proposito di religione, l’insediamento dei Sanniti avvenne probabilmente in occasione della ʻPrimavera sacraʼ, il ver sacrum, un’antica ricorrenza rituale praticata dai popoli italici e basata su processi migratori (forzati) lungo l’Appennino per la deduzione di nuove colonie oppure per l’alleggerimento demografico. Questo antico rituale aveva come protagonisti l’uomo e l’animale e consisteva nella promessa al dio Mamerte di offerta sacrificale di tutti i primogeniti nati in un arco temporale compreso tra marzo e giugno incluso.

I bambini non venivano realmente immolati, bensì crescevano protetti dagli dèi per poi essere costretti ad emigrare da adulti e fondare un nuovo popolo. L’abbandono dei luoghi d’origine da parte dei poveri sacrati prevedeva il dover seguire un animale guida, sacro alle divinità e diverso a seconda delle comunità: il toro per i Sanniti, il lupo per gli Irpini (dall’osco hirpus, lupo), il picchio verde per i Piceni o Picenti (dal latino picus, picchio) etc.

Le società osche erano il retaggio di antiche comunità agropastorali: non dobbiamo certamente pensare a organizzazioni in municipi o città-stato evoluti come per i Romani e i Greci, ma a cellule politico-amministrative denominate touto o touta, termini osci indicanti letteralmente le città o il popolo ed esprimenti un concetto molto più vasto rispetto a quello latino di civitas.  Se qualcosa si può forse dire sulla sfera istituzionale osca, è che nella fase preurbana dell'aggregazione dovette esserci una sorta di un capo unico, un meddíss o meddix che, per comodità, traduciamo come ʻgiudiceʼ.

La documentazione: tra frammenti e scrittura da destra a sinistra

La documentazione epigrafica tramandata si presenta ricca e multiforme, seppur frammentaria. Tra i documenti e i complessi epigrafici maggiori vanno ricordati: le iscrizioni di Pompei che non hanno bisogno di grandi presentazioni; il Cippo Abellano (un trattato tra le città di Abella alias Avella e Nola, in Campania, per la demarcazione dei confini); la Tavola di Agnone (un calendario rituale); le cosiddette iúvilas di Capua (iscrizioni di gruppi familiari gentilizi connessi con specifiche cerimonie); la Tavola Bantina (il più esteso tra i documenti osci finora scoperti e il cui testo riguarda una legge municipale dell’antica città di Bantia, l’attuale Banzi in provincia di Potenza – ne vediamo di seguito un'immagine pubblicata da lucaniainrete.it); le defixiones (tavolette esecratorie, recanti maledizioni); le iscrizioni pubbliche del sito italico di Pietrabbondante in provincia di Isernia; le iscrizioni del santuario lucano di Rossano di Vaglio in Basilicata.

La scrittura osca rappresenta quasi un unicum nel mosaico linguistico dell’Italia preromana e la motivazione è legata all’utilizzo di tre alfabeti differenti: un alfabeto di elaborazione locale, derivato da modello etrusco soprattutto in Campania e nel Sannio; un alfabeto greco con adattamento in Lucania e nel Bruzzio; l’alfabeto latino nei documenti più tardi. In generale l’alfabeto osco oscilla tra un numero minimo di 19 lettere e un massimo di 23 e l’andamento della scrittura procede da destra verso sinistra. Di seguto la scheda dell'alfabeto osco pubblicata da Runemal.

L’origine delle maschere

Una delle poche testimonianze della cultura letteraria osca sopravvissuta fino all’epoca romana risiede nelle Fabulae Atellanae, farse popolari della città di Atella in provincia di Potenza, che erano solite rappresentare scene di vita delle genti osche e, in particolar modo, rustici alterchi. Dobbiamo agli Osci quei personaggi fissi, quelle maschere, come il padrone avaro, il servo geloso, il contadino sciocco o il vecchio babbeo, che avranno lunga tradizione nelle rappresentazioni teatrali dall’antichità ad oggi.

Fenomeni antichi nei dialetti moderni

Per concretizzare queste nozioni di cui abbiamo parlato, ecco un interessante (direi interessantissimo) fenomeno linguistico che è ancora oggetto di dibattito tra gli specialisti. Mi riferisco a parole antiche che rimangono nella lingua di tutti i giorni, nei dialetti moderni e, nello specifico, nei libri che leggiamo, nelle serie televisive che adoriamo guardare e nelle imitazioni del parlar straniero di cui spesso diventiamo abili maestri davanti agli amici. Il fenomeno in questione è la cosiddetta ʻassimilazioneʼ, della quale esistono due tipi.

Quante volte vi sarà capitato di sentire pronunciare la parola tecnico come tennico? Ecco, questo è un caso di assimilazione. Si tratta di un fenomeno di mutamento linguistico per il quale un suono (tecnicamente un fono) nel corpo della parola tende a divenire simile o uguale a un altro suono vicino con cui condivide alcuni tratti comuni. Come dicevo, l’assimilazione può essere regressiva o progressiva: il primo caso è quello di latino nocte(m) > italiano notte, in cui osserviamo che il suono c diventa uguale al successivo t; il secondo caso, inverso, ci viene spiegato dall’esempio latino quando > dialetti meridionali ˈkwannə (quest’ultima vocale, definita come ʻindistintaʼ o ʻneutraʼ, è chiamata schwa dal nome di una lettera dell’alfabeto ebraico), in cui la d si assimila alla consonante precedente n.

Terminata questa breve premessa e tornando a noi, nell’Italia centro-meridionale è ricondotta all'effetto sostratistico osco l’assimilazione progressiva di -nd- > -nn- e -mb- > -mm-. Con sostrato intendiamo le tracce che in una lingua possono essere attribuite a una lingua precedente. Il fenomeno in questione è generalizzato dalle Marche e dall’Umbria fino alla Sicilia, con esclusione di una parte dei dialetti salentini, dei dialetti calabresi centro-meridionali e dei dialetti siciliani di nord-est.

Un esempio chiarificatore: osco sakrannas (latino sacrandae, ʻda consacrareʼ) oppure úpsannam (latino operandam, ʻda compiereʼ) equivalgono a romanesco monno e napoletano múnn[ə] per mondo, derivato dal latino mundu(m).

Con questi pochi esempi pare abbastanza chiaro che, a prescindere dal dibattito controverso sul caso assimilatorio proposto e su numerosi altri fenomeni implicati, l’osco è una lingua viva: vive nei dialetti moderni e nelle numerose parole che vengono utilizzate tutti i giorni.

A pensare che anche del nome ʻItaliaʼ è proposta l'origine osca da víteliú (la «terra dei vitelli»), questa lingua non parrà più così tanto estranea!

Commenti