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Il ‘buongiorno’ e le parole che riportano al lieto fine

Nelle parole c’è un segreto da trovare, oltre all’etimologia. Ed è lo stesso per tutte.

Qualche millennio fa, in una terra lontana, un hobbit disse: «Buongiorno.» E un mago indispettito gli rispose: «Che vuoi dire? Mi auguri un buon giorno, o vuoi dire che è un buon giorno che mi piaccia o no, o che quest’oggi ti senti buono, o che è un giorno in cui si deve essere buoni?»

Il caro Gandalf è forse un po’ pedante, ma apre una questione non da poco: le parole hanno in sé un grande potenziale, che noi spesso utilizziamo solo in minima parte. I saluti sono probabilmente l’esempio più eclatante. Prendiamo il più innocuo di tutti, ‘ciao’: se proviamo a sgusciarlo, scopriamo che nel suo cuore significa ‘schiavo tuo’. Certo, nessuno ci pensa più, ma quel prezioso gheriglio, quello slancio originario di dedizione, è ancora lì dentro da qualche parte. Del resto le etimologie piacciono a tutti, anche (e forse soprattutto) se non sono accademicamente accuratissime. Perché in fondo vogliamo che le parole significhino qualcosa di più di quello che mostrano: in qualche modo avvertiamo che dentro di loro c’è un segreto da trovare.

Non c’è bisogno comunque di riesumare etimologie dimenticate per renderci conto che, molto spesso, noi navighiamo tra le parole come tra gli iceberg: vedendone soltanto la punta. Per esempio, mi ha sempre lasciata piuttosto perplessa l’abitudine inglese di iniziare ogni conversazione, per quanto occasionale, con la domanda «How are you?» ossia «Come stai?». Una domanda che presuppone un’unica risposta possibile («Bene») e alla quale spesso non si risponde nemmeno: perché in fondo nessuno vuole veramente sentire la risposta. Devo dire che questo uso delle parole mi fa una certa tristezza. Come pure quegli arrivederci pieni di «Ci vediamo, eh? ci sentiamo presto» che in realtà non vogliono dire proprio nulla: sono solo “cose che si dicono”.

Il povero buongiorno è forse il saluto più bistrattato. Spesso è una pura frase formale, magari mangiucchiata in «’giorno»: io stessa lo faccio parecchie volte. Ma che differenza quando, per esempio, entro nell’aula studio della mia università, e vedo i miei amici intorno al tavolo, e mi siedo con loro contenta di fare ciò che faccio; ecco, allora quando dico: «Buongiorno!», mi accorgo che la parola è di nuovo viva, vera e presente. Insomma, ha ragione Gandalf: in un buongiorno “vero” c’è tanto. C’è la gioia di sentire il buono nel mondo e in se stessi, c’è l’esortazione perché anche l’altro gusti questa bontà, e c’è l’augurio che il nostro interlocutore abbia una giornata piena di cose buone. 

Una promessa di paradiso

Il filosofo Fabrice Hadjadj ci aggiunge anche un tocco metafisico: per lui nel buongiorno quotidiano è contenuta perfino una promessa di paradiso. La promessa cioè di poter sperimentare, prima o poi, un giorno veramente e completamente buono: vale a dire, appunto, la felicità assoluta ed eterna del paradiso. E cita ad esempio il saluto che Beatrice rivolgeva quotidianamente a Dante, appena accennato nel sorriso e nello sguardo. Un nulla, eppure sufficiente perché nell’ordinario si intuisse una promessa straordinaria, dalla quale è nato peraltro l’incredibile capolavoro della Divina Commedia.

A ben guardare però la tensione al bene non è un’esclusiva dei saluti. In effetti, a detta dello scrittore Luigi Santucci, tutte le parole contengono una spinta al positivo, alla felicità. Perciò quel segreto che ci sembra di intuire in loro ha un nome ben preciso: speranza. Ma lasciamo la parola a Don Pasqua, personaggio dell’Orfeo in paradiso cui appartiene questa eccentrica teoria:

Mi spiegherò con qualche esempio […] Ecco, “porta”. Poco fa tu hai spinto quella, per entrare da me. Bene: perché varchi una porta? Tu dietro quelle porte vai a cercare ogni volta un bene, se no non le varcheresti. Sarà un bene piccolissimo: tornare a prendere il cappello che hai dimenticato; o uno grande, che so?, rivedere tua madre dopo un lungo viaggio... […] Questo riguarda la cosa, mi dirai tu, ma la parola che c'entra? Eh no, c'entra! La cosa è sorda, passiva, resta quella che è. La parola invece è capace di assorbire il sentimento di ottimismo che hai verso la porta, la tua - come dirò? - speranza nelle porte. In quelle sillabe “porta” è dunque inclusa la volontà dell'uomo, il senso che l'uomo dà a quella cosa: che è sempre il senso di una vita migliore davanti a sé, anche se chi parla, bada, è un pessimista. In ogni parola c'è un pezzetto del paradiso perduto e insieme di colpo riconquistato.

Che dire però — obietta giustamente un altro personaggio — delle parole negative? Anche loro contengono una speranza, risponde don Pasqua: la speranza di evitare il male. ‘Malato’, per esempio, significa «uno che aspira a tornare sano», ‘nemico’ è «un amico degenere» che si vorrebbe riportare all’amicizia con la forza… Perfino ‘morte’ è per don Pasqua un «vocabolo frainteso», che significa esattamente l’opposto di quanto si pensa. In conclusione: «Ogni parola anche sfavorevole ha addosso, nell'amore di vita di chi la pronuncia, il suo antidoto. Lascia fare a loro, abbi fede in loro e ti riporteranno al lieto fine.»

L'antidoto nel veleno

Certo questa fiducia può sembrarci un po’ eccessiva. E tuttavia la tesi di don Pasqua trova conferma nel contesto più impensabile, il più crudo e disumano che si possa immaginare. Un luogo dove la materialità divora l’astrazione e quindi, si direbbe, fa precipitare la parola in fondo alla lista delle priorità. In un episodio giustamente famoso di Se questo è un uomo, Primo Levi racconta il dialogo avuto ad Auschwitz con un altro prigioniero, Jean il Pikolo. I due sono incaricati di trasportare la zuppa dalle cucine al campo e questo compito gli concede un’ora di relativa tranquillità in cui, eccezionalmente, possono chiacchierare da uomini, di cose normali. Ricordano la propria famiglia, il proprio paese… Poi Pikolo chiede a Levi di insegnargli un po’ di italiano e lui, con un’improvvisa ispirazione, si mette a recitare il canto di Ulisse dell’Inferno dantesco. Un testo non molto utile per insegnare la lingua, in verità; ma più Levi procede nella spiegazione, più si rende conto che quelle parole hanno per lui un’importanza vitale. Si dispera per le lacune che la sua memoria scolastica non gli permette di ricostruire, finché arriva ad affermare: «Darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale.» Considerando che i pasti forniti ai prigionieri non erano neppure sufficienti a coprire il fabbisogno giornaliero, questa affermazione suona come una spropositata esagerazione. Eppure Levi stesso la conferma in Sommersi e salvati, a quarant’anni di distanza: «Non mentivo e non esageravo. Avrei dato veramente pane e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi».

Perché quelle parole sono così importanti per Levi? Probabilmente perché esse gli restituiscono la dignità del suo essere uomo, e ridanno un senso al suo dolore. Infatti, arrivato alla famosa terzina: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste per viver come bruti, / ma per seguire virtute e canoscenza», Levi commenta: «[è] come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.» Per un istante, cioè, Levi ritrova la propria umanità in tutta la sua estensione, sfidando l’opera di disumanizzazione intrapresa dai tedeschi. E gli sembra che anche Pikolo abbia «ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.» Più avanti Levi recita la morte di Ulisse, che sprofonda in mare «com’altrui piacque»; e in quella terribile frase, in cui si concentra tutto il mistero del male, il prigioniero coglie all’improvviso qualcosa «di gigantesco, […] forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui». 

Ecco, la parola – e la letteratura in ispecie – fa questo: non offre soluzioni all’enigma della vita, spesso non dà neppure conforto in senso stretto; però richiama l’uomo a se stesso, alla propria dignità, impedendo che diventi un oggetto tra gli altri. Inoltre, come spiega il poeta Mario Luzi, la parola ci aiuta a orientarci nel mondo frammentato e crudo con cui abbiamo a che fare: «dà un senso a ciò che sembra non più averne, ritrova un po' la ragione del nostro esserci e del nostro soffrire.» (Conversazione. Interviste 1953-98). Attribuisce dunque alle cose un significato e un ordine, e perciò è strettamente connessa al pensiero, alla ragione: infatti il greco logos indica entrambi i concetti. Inoltre la parola crea relazioni, come appunto l’amicizia tra Levi e Jean; e tanto la relazione quanto la ragione sono caratteristiche fondamentali dell’umano. Perciò, sia che ci piaccia considerare l’uomo un «animale razionale», sia che preferiamo descriverlo come «animale sociale», la parola è nel cuore di tutte le sue definizioni.

La zattera della parola

Non a caso la disumanizzazione in atto ad Auschwitz si accompagna a una degradazione della lingua, come Levi ha rimarcato più volte. L’eterogeneità dei prigionieri crea una babele di linguaggi, che rende la comunicazione difficilissima; e il tedesco stesso si corrompe fino a diventare una brutta copia di se stesso. L’emblema di questa degradazione è la figura più drammatica descritta da Levi nella Tregua: Hurbinek, il bambino senza nome, nato forse ad Auschwitz o arrivatovi piccolissimo. Incapace di parlare, riesce solo a emettere suoni inarticolati che i suoi compagni di camera si sforzano inutilmente di interpretare. Tuttavia i suoi occhi «saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo […] che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.»

Al contrario la fine di Auschwitz comporta una rinascita della parola. Ciò avviene prima ancora che il lager sia raggiunto dagli alleati: i tedeschi l’hanno già abbandonato ma i superstiti devono ancora lottare per la sopravvivenza, in condizioni estremamente dure. Eppure tra Levi e i suoi compagni di stanza si costruisce per la prima volta un dialogo autentico: 

A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell’armistizio in Italia […] e della nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese.

Immaginiamoci la scena: un gruppo sparuto di uomini, provati al punto da assomigliare a dei fantasmi; buio, morte e disperazione tutto attorno. E nel mezzo la parola, come una fiammella che gradualmente ricomincia a bruciare. È fragilissima, è un nulla, eppure è un piccolo miracolo, tanto che perfino chi non conosce la lingua viene a riscaldarsi alla sua fiamma. 

E possiamo anche pensare a un’altra scena, per certi aspetti simile: in mezzo al fango delle trincee, con la morte costantemente davanti agli occhi, un ragazzo scarabocchia poche parole su foglietti di fortuna. Nascono così alcune tra le poesie più amate della letteratura Italiana; e forse le parole di Ungaretti splendono tanto proprio perché nate nel buio, come infinitesimali scintille. Chissà quante volte, nel corso della storia, sono successi questi piccoli miracoli, e quante volte ancora succedono, magari senza che nessuno li noti. 

Certo, Levi e Ungaretti hanno vissuto circostanze estreme: presumibilmente, per nostra fortuna, non vedremo mai la parola levarsi in un contrasto tanto netto con ciò che la circonda. Tuttavia anche noi ci siamo certamente imbattuti, prima o dopo, in parole che sembravano brillare di luce propria: parole che, nell’opacità del linguaggio quotidiano, si sono improvvisamente animate, come un guizzo di fiamma. Si trattava magari di pensieri complessi, come un’intuizione trovata in un libro o l’affermazione di un maestro; o, al contrario, di parole fulminee e semplicissime: un «Ti amo» detto in un fremito, il primo «mamma» di un bimbo. Magari erano addirittura parole del tutto comuni – come il famoso «buongiorno» di cui parlavamo all’inizio – che per qualche motivo hanno riacquistato sapore e fragranza

I momenti in cui la parola significa

È proprio da questi momenti che nascono le poesie, come spiega ancora Mario Luzi. Sono i momenti in cui la parola significa veramente, ossia c’è un allineamento, una consonanza quasi perfetta tra la cosa di cui si sta parlando, la parola che la designa e il pensiero che la recepisce:

Un attimo 
di universa compresenza
di totale evidenza -
entrano le cose
nel pensiero che le pensa, entrano
nel nome che le nomina,
sfolgora la miracolosa coincidenza.

Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini

In questo modo la parola diventa creatrice di vita: instaurando un rapporto diverso tra noi e le cose, dà nuova vita alle cose stesse e al contempo le porta all’interno della nostra vita, rinnovandola. Che poi, a ben pensarci, il racconto della creazione non comincia forse così? «Dio disse: sia la luce. E la luce fu.» Dunque il mondo nasce con una parola che, letteralmente, «sfolgora»: una parola che significa pienamente ciò che dice e perciò lo fa essere, lo crea. Del resto lo leggiamo anche nel Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo», la parola appunto. Ora, senza accampare pretese di onnipotenza, potremmo trarre da qui una considerazione generale: le parole, se usate nella pienezza del loro potenziale, creano. Non lasciano mai le cose come stanno, ma creano qualcosa: conoscenza, legami, bellezza, senso, umanità… Se chi le pronuncia è Dio, c’è il caso che ne scappi fuori un universo intero; se è un poeta, più modestamente, ne uscirà una poesia; e se invece è un uomo qualsiasi, ne nascerà forse un pensiero, un’azione, un affetto… chi può dirlo?

Usare le parole al meglio del loro potenziale

Tuttavia, rientrando dai nostri voli pindarici, un quesito rimane: in che modo possiamo effettivamente utilizzare le parole al meglio del loro potenziale? Perché queste belle teorie dovranno pur tradursi in pratica, e ciò pone noi cultori delle parole in una situazione un po’ imbarazzante. Dobbiamo forse aprire bocca soltanto se siamo assolutamente sicuri di creare qualcosa di significativo? Così la pensa per esempio il signor Palomar, indimenticabile personaggio di Italo Calvino: «In un'epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l'abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio

Questa risoluzione ha del fascino ma temo che renderebbe la nostra compagnia insopportabilmente noiosa, oltre a procurarci un probabile esaurimento nervoso. Potrebbe perfino essere controproducente, e non solo perché – come il signor Palomar capisce ben presto – anche il silenzio è una forma di comunicazione, a volte persino più forte delle parole. C’è anche un’altra considerazione da fare: non sempre la potenza delle parole è evidente nell’immediato. Ci sono parole del tutto normali, pronunciate senza pensarci troppo, che pure nascostamente lavorano nel tempo, come piccoli semi piantati nel terreno. Possono essere le parole di un autore che, a mesi di distanza dalla lettura, ci tornano in mente con un significato nuovo; oppure possono essere le chiacchiere scambiate con un amico, indifferenti in sé ma capaci, come fili invisibili, di tessere un legame. Viceversa, poi, ci sono parole attentamente pensate che al momento fatico “escono male”, o comunque mancano il proprio bersaglio… dobbiamo tenere conto anche di questo, la parola non è uno strumento infallibile.

Torniamo allora alla domanda di partenza: che fare? Beh, naturalmente è importante fare delle proprie parole il miglior uso possibile: sfruttarne le sfumature lessicali, dosarle con precisione grammaticale e terminologica. Ma, a mio modo di vedere, questo imperativo poggia sua legge più generale, che poi è sempre quella famosa di sant’Agostino: «Ama, e fa’ ciò che vuoi». Usare bene le parole implica anzitutto amarle, ossia sperare in loro: guardarle, appunto, come piccoli semi, che possono dare frutti anche nelle circostanze più impensate. Solo se abbiamo questa speranza potremo coltivarle con tutta la cura che meritano. E così auspicabilmente fruttificheranno, in noi stessi prima ancora che negli altri. Insomma, come diceva il bravo don Pasqua dell’Orfeo in Paradiso: «Abbi fede in loro, e ti riporteranno al lieto fine

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