Albicocca
al-bi-còc-ca
Significato Frutto dell’albero di albicocco (Prunus armeniaca)
Etimologia dall’arabo al-barqūq che oggi vuol dire ‘prugna, susina’, probabilmente dal greco praicòkium, a sua volta dal latino praecoquus.
Parola pubblicata il 23 Ottobre 2020
Parole semitiche - con Maria Costanza Boldrini
Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.
Un momento. La parola albicocca viene da una parola araba che indica la prugna, quindi un altro frutto, che a sua volta viene da un termine latino che ha anche generato il nome percoca, una varietà gustosissima di pesca, attraversando il greco? Che stregoneria è mai questa?
La stregoneria in questione non è altro che un ennesimo esempio della magia delle lingue, dei traffici, delle etimologie e della storia più in generale.
Partiamo dalla cosa, cioè il frutto e l’albero che lo produce: pare venire dalla lontana Cina ed esistere da ben 5000 anni. Si chiama Prunus armeniaca, famiglia delle Rosacee, genere prunus, proprio come il ciliegio, il pesco, il pruno e il mandorlo. Sembra che siano stati i Romani a diffonderlo nel bacino del Mediterraneo: nell’Editto di Diocleziano, emesso nel 301, si parla infatti di praecoqua, cioè pesche e albicocche, partendo dalla parola praecox, ovvero precoce. La foto è di Superbass.
Interessante notare che nel De re rustica, importantissimo trattato di agraria romana ad opera di Lucio Giunio Moderato Columella, queste piante sono invece dette armeniacum, mettendole dunque in stretta relazione con la regione dell’Armenia. Che il canale di arrivo dell’albicocco dalla Cina all’Impero sia passato laggiù? D’altra parte, Columella visse ben prima che la remota provincia facesse parte a più riprese dello sterminato territorio imperiale, tra il II e il IV secolo d.C. I Greci, poi, presero al latino la parola, tanto che la si ritrova nei testi di Galeno, famosissimo medico di Pergamo, e di Dioscoride, non soltanto anch’egli medico, ma perfino botanico.
Non è la prima volta che incontriamo parole greco-latine che in italiano sono arrivate passando per l’arabo (fondaco ne è un brillante esempio). Sembra pacifico che gli arabi, arrivati dalla penisola desertica fin sulle sponde del Mare Mediterraneo, abbiano fatto la conoscenza di questi alberi da frutto e, apprezzandoli per la dolcezza dei loro frutti, li abbiano diffusi largamente in tutti i territori da loro conquistati, un po’ come è avvenuto con il limone. Le albicocche secche sono consumate in tutto il Medioriente e sono nella lista ingredienti di gustosi piatti tipici, come il khoshaf, una macedonia di frutta secca tipica del periodo di Ramadan. Ma curiosamente, se apriamo il vocabolario di arabo e cerchiamo la parola ‘albicocca’, troveremo mishmish, e se andiamo alla voce ‘prugna’, avremo invece… barqūq!
Come spiegarlo? Molto semplicemente con la confusione che nei secoli si è creata nella denominazione delle varietà di frutta. Un po’ come avviene oggi nell’alternanza dei nomi di prugne e susine, o come nei tempi antichi col cedro e il limone… è il caso di dire che per fortuna alla fine arrivò Linneo.
La parola araba ha ispirato dunque la nostra albicocca, ma anche abricot in francese, apricot in inglese, albaricoque in castigliano, forse quella che più echeggia della sua genitrice semitica. La dolcezza di questi frutti vellutati, succosissimi, dolci ma al contempo leggermente amarognoli esce dalla cosa per passare nel nome stesso: c’è un’iniziale apertura della bocca, quasi ad accogliere tra le labbra l’interezza del frutto, c’è l’acquolina della golosità, c’è la lingua che saggia il gusto e la consistenza in albi, seguiti da uno schiocco improvviso nel cocca, come se avessimo già la gola piena di polpa e non riuscissimo a fermarci più perché, si sa, le albicocche, come avviene con le ciliegie… una tira l’altra.