Fondaco

Parole semitiche

fón-da-co

Significato Edificio in cui, per concessione del signore locale (ad esempio il doge a Venezia) i mercanti stranieri potevano depositare le loro merci, trattare compravendite e albergare

Etimologia dall’arabo funduq, ‘albergo, locanda, hotel’, a sua volta dal greco pándokos, ‘albergo’, composto di pas e dékomai, ‘accogliere tutti’,.

‘Ma… questa parola viene dal greco! Non è una parola semitica!’ esclameranno i più precisi.

Vero. Viene dal greco, per essere esatti da una parola derivata di pas, cioè tutto, e dèkomai, che tra le altre cose significa ‘accogliere, dar il benvenuto’. Ma è giunta fino a noi grazie all’arabo funduq, arrivando in Italia attraverso le mastodontiche porte di accesso che furono le città marittime e commerciali del Medioevo italiano: Venezia, Pisa, Genova, Ancona, Amalfi, Ragusa… La si trova nel pisano del XII secolo, addirittura Boccaccio ne fa uso nel suo Decamerone e, se vi dilettate in quella meravigliosa attività fisica per intellettuali che è il flâner, il girovagare in città, ne incontrerete anche per le calli di Venezia (celebri il fontego dei Tedeschi, dei Turchi, del migio – miglio).

Cos’è un fondaco? È un edificio, o un complesso di edifici, che si ergeva in città dalla vocazione prettamente mercantile. A ciascuna nazione avente traffici e rapporti commerciali con la città in questione veniva assegnato un fondaco (appunto il fondaco dei tedeschi, dei turchi, dei genovesi, dei veneziani). Era una sorta di ambasciata ante litteram, ma anche una specie di ghetto: ai mercanti di quella nazione che venivano in città era imposto l’obbligo di pernottare, mangiare, depositare le merci ed effettuare le loro compravendite e transazioni varie esclusivamente entro i limiti del fondaco. L’edificio era fornito quindi di magazzini (anche questa parola araba), forni, moli d’attracco per le imbarcazioni, luoghi di culto, alberghi con comodità più o meno moderne, uffici doganali (la dogana è un’altra parola di origine orientale), archivi eccetera eccetera. Era un pezzo di nazione nel mezzo di una città straniera.

In Sicilia pare che la parola abbia mantenuto un significato più semplice: quello di osteria, locanda di strada per carretti e vetture trainate da bestie da soma. E a guardare bene questo è un uso che si avvicina molto di più al significato che la parola funduq ha in arabo. Già, perché è una parola che esiste ancora. Oserei dire che è una delle prime che si apprendono quando ci si approccia alla lingua araba e si inizia a fornirsi di vocaboli di vario genere: significa meramente albergo, hotel.

Se vi state chiedendo per quale ragione da pándokos si sia arrivati a funduq, la spiegazione è che la lettera ‘p’ in arabo non esiste e, nell’adattare il suono ‘p’ al proprio sistema fonetico, l’arabo ha tradizionalmente a disposizione due scelte: la ‘b’ o la ‘f’ (ad esempio Parigi è Bāris e la lingua persiana è il farsi).

Sì, l’arabo non ha la ‘p’ e d’altra parte nemmeno la ‘v’. Ma non dobbiamo fare troppo i superiori: la lingua araba classica possiede tre ‘t’ diverse, tre ‘d’, tre ‘h’, senza contare una differenza enorme tra ‘k’ e ‘q’, e una lettera complessa come la ‘ayn, una strozzatura gutturale dei suoni, difficilissima da riprodurre. A confronto la ‘p’ e ‘v’ sono due caramelle al miele!

Parola pubblicata il 05 Giugno 2020

Parole semitiche - con Maria Costanza Boldrini

Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.