Apocrifo
a-pò-cri-fo
Significato Di libro religioso, non riconosciuto nel canone delle scritture rivelate; di testo, spurio, attribuito falsamente
Etimologia voce dotta recuperata dal latino ecclesiastico apòcryphus, dal greco apókryphos ‘nascosto, segreto’, da apokrýpto ‘occultare’, derivato da krýpto ‘nascondere’ col prefisso apo- ‘via da’.
Parola pubblicata il 28 Febbraio 2024
I vangeli apocrifi forse sono l’occorrenza più famosa e diffusa di questo aggettivo, e però sono anche un caso d’uso un po’ fuori asse, che non ci fa capire in maniera cristallina la consistenza del suo significato. E non è nemmeno l’unico scarto di senso che troviamo nella sua evoluzione.
Pensiamoci: apókryphos, in greco, significa ‘nascosto’ (e anche ‘ostico, difficile da capire’), ma i vangeli apocrifi sono pianamente quelli al di fuori del canone delle Scritture. Ma se invece parliamo di una citazione apocrifa, intendiamo che è attribuita erroneamente o falsamente. Sembrano proprio tre significati sconnessi, ma si collegano quando squaderniamo la storia di questa parola.
Il nostro ‘apocrifo’ non arriva direttamente dal greco, ma passa attraverso il latino ecclesiastico, con apocryphus. È un prestito che il latino acquisisce col significato greco originale, infatti lo appiccica su quel genere di libri religiosi di cui non era approvata la lettura pubblica ad alta voce — che banalmente venivano tenuti nascosti dal clero perché non accettati come rivelati, perché falsi. Così il nascosto si aggancia al fuori canone, e il fuori canone si aggancia al falso, allo spurio, con un’accezione che investe in particolare l’attribuzione di un’opera a una persona o a un’epoca.
Ma quando otteniamo questo significato, dobbiamo tenere presente che non è un significato neutro, privo di sfumature. Sopra continua a pesarci il riferimento originale al testo religioso escluso e celato — un riferimento particolarmente alto e affascinante, con più di un tocco d’arcano, di pericoloso, e anche di promettente.
La falsità di attribuzione, così, ne esce estremamente caratterizzata. Naturalmente è un termine tecnico e paludato se ragioniamo di letteratura, di filologia, di teologia. Ma se parlo di una battuta apocrifa di Tizio probabilmente sto scherzando sull’importanza della questione di una battuta rubata — altrimenti sarebbe una qualificazione un po’ eccessiva; se parlo di una poesia apocrifa di una poeta che mi piace molto, sto sfruttando un’eco di grande levatura per disconoscere quel testo dal corpo dell’opera che amo, dando insieme l’impressione di averlo ben soppesato; e se dico che la ricetta della nonna risulta apocrifa (l’aveva inserita nel ricettario la zia) do a quel nucleo di ricette la dignità nientemeno che di un canone, letterario o più.
È un fenomeno stupendo: non sono sfumature aborigene, già contemplate in quel nascosto, in quell’ostico che ci porta in significato l’originale greco — un originale così marcato nel verbo apokrýpto, con quel prefisso apo-, ‘via da’, intestato al krýpto, ‘nascondere’. Piuttosto, sono sfumature maturate nelle risposte pratiche che questa parola ha saputo dare. In particolare, risposte alla necessità di definire (adombrare) una qualità delicata — delicata quanto può essere delicato il compito di riconoscere falsità che fanno sbagliare a un grado ultimo, escatologico.
(Va detto per bella risonanza coi significati primi che in effetti l’aggettivo apocrifo risulta anche ostico da usare.)