Appartenere
ap-par-te-né-re (io ap-par-tèn-go)
Significato Essere proprietà di qualcuno; fare parte di un gruppo, di una classe, di un’organizzazione
Etimologia dal latino tardo appertinère, da pertinère ‘riferirsi, concernere, appartenere’, con prefisso ad- ‘verso’, rimodellato su pars ‘parte’.
Parola pubblicata il 18 Gennaio 2024
Che parola facile! Appena il tempo di fare questo pensiero e siamo già con le piccozze su una parete verticale. ‘Appartenere’ è un verbo con un’ambivalenza profondissima, tocca la signoria più venale e padronale e la comunione più profonda e intima, e per di più è un verbo chimerico, pasticciato nei secoli. Avventuriamoci, perché forse troveremo qualcosa di importante.
Il ceppo da cui nasce, sghembo, è il pertinere latino. È il verbo da cui arriva il nostro pertenere, verbo ormai piuttosto raro che ha il senso di un ‘riguardare’. Ma questa è la punta dell’iceberg: il pertinere latino ha sì i significati di ‘concernere’ e perfino di ‘appartenere’ ma perché è un estendersi, un diffondersi, addirittura un ‘mirare’, un ‘essere diretto’, un ‘avere come scopo’.
Un ‘riguardare, concernere’ che annulla ogni distanza tanto da entrare in qualcosa (magari con un prefisso ad- che gli conferisce una forte direzione) prende il profilo definitivo di un ‘appartenere’. Ma il verbo appertinere nel latino tardo subisce una mutazione ulteriore e abusiva: il modo in cui è parte e fa parte viene squadernato rimodellandolo con pars, partis, cioè ‘parte’. Così abbiamo in eredità l’appartenere, con un innesto concettuale che dia chiarezza inequivocabile al verbo. Con risultati non così univoci, però.
Una delle prime letture di questo verbo — perché le sostanze, i patrimoni non saranno argomento alato ma è argomento importante — è l’essere proprietà di qualcuno, o l’essere in suo possesso. Questa casa mi appartiene, questa biblioteca mi appartiene, questa città mi appartiene (lo posso pensare, se sono un palazzinaro o un mafioso). In questo senso è un verbo piuttosto paludato, pesante: non chiedo «A chi appartiene questo guanto?», se non a costo di parere affettato. ‘Appartenere’ è un far parte delle sostanze e della signoria di qualcuno — c’è una parte di mondo su cui si proietta il nostro dominio che è nostra pertinenza, che è parte nostra. Ma c’è un altro ‘appartenere’, un altro modo di leggere questo essere parte.
Io appartengo a un gruppo. A un’associazione. A una classe o categoria di persone. Questa appartenenza non è un’iscrizione. Non è nemmeno una partecipazione, nonostante la parentela di parte — perché il partecipe prende parte, non è, non fa parte. L’appartenere racconta un nesso organico, e quindi più forte.
Beninteso, questo può valere anche nella normalità scientifica e poco sentimentale di un appartenere a una categoria tassonomica. Ma può farci scendere in profondità. Gaber, che sull’appartenenza scrisse una canzone, dice che «L’appartenenza è avere gli altri dentro sé», e che «È quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa / Che in sé travolge ogni egoismo personale / Con quell'aria più vitale che è davvero contagiosa». ‘Appartenere’ è un verbo di comunione attiva che odora di destino. E lo capiamo bene se proviamo a ribaltare gli esempi proprietari di prima.
Io appartengo a questa casa — non è la frase della nonna che continua la vita secolare di un casale, da cui se staccata appassisce? Io appartengo a questa biblioteca — non è la frase di chi l’ha servita e vi ha trovato una linfa vitale unica? Io appartengo a questa città — non è la realizzazione di chi riconosce il modo in cui ormai è intrecciato del flusso complesso e misterioso di una città, che magari non era la sua? La tirannide si rovescia in comunanza. Più facile intendere la portata di ciò che intendo, se dico che appartengo a un gruppo, che appartengo (o no) a un certo mondo. Forse, questo ‘appartenere’ è un presupposto dell’amore — ma questo è un terreno meno solido, e dopotutto siamo già arrivati.