Contrappasso
con-trap-pàs-so
Significato Criterio punitivo che comporta una pena equivalente alla colpa commessa
Etimologia dal latino medievale contrapassum, composto da contra, ‘contro’, e passus, participio passato di pati, ‘soffrire’.
Parola pubblicata il 01 Febbraio 2021
Parole d'autore - con Lucia Masetti
La lingua cresce con la letteratura – e noi abbiamo un bel mucchio di parole inventate da letterati, rese correnti da autori celebri, o che nascono da opere letterarie. Scopriamo insieme queste belle parole dietro alle quali si può sorprendere una mano precisa.
Tutti sanno che Dante è il “padre della lingua”, ma è difficile capirlo appieno finché non si cominciano a dare un po’ di numeri. È stato calcolato che più dell’80% del lessico fondamentale italiano è già presente nella Commedia; in particolare il 60% circa delle parole oggi più usate esistevano già prima, e Dante le ha tramandate fino a noi imprimendovi il sigillo dell’ufficialità. Il restante 20% invece l’ha inventato lui, attingendo al latino, al francese, ai dialetti o semplicemente alla propria fantasia.
Alcune delle sue innovazioni sono oggi del tutto insospettabili; per esempio tutte le volte che ‘inoltriamo’ un’email facciamo un inconsapevole omaggio al Sommo poeta, perché prima di lui questo verbo non esisteva. Altri vocaboli invece sono così inconfondibilmente danteschi che basta nominarli per scorgere il suo lungo naso spuntare da sopra la nostra spalla.
‘Contrappasso’ è appunto uno di questi, anche se in realtà Dante ruba la parola a san Tommaso, italianizzando il latino contrapassum (a sua volta modellato sul greco antipeponthòs di Aristotele). Il concetto poi è vecchio più o meno di 3800 anni, visto che l’equivalenza pena-punizione è sancita già dal Codice di Hammurabi. Ciò comunque non toglie nulla all’inventiva di Dante, che ha dato al contrappasso una vitalità immaginifica senza precedenti.
Prendiamo ad esempio il canto XXVIII dell’Inferno, l’unico in cui il termine compare esplicitamente. Qui troviamo una delle apparizioni più terribili e fantastiche della Commedia: un uomo decapitato, che cammina reggendo la propria testa per i capelli. Tale pena non è che la traduzione lugubremente letterale del suo delitto: egli ha messo il giovane Enrico III contro il padre, re d’Inghilterra, scindendo così una famiglia e una nazione dal proprio capo.
È con immagini come questa che Dante ha impresso indelebilmente il contrappasso nell’immaginario collettivo, declinandolo sia per contrasto (la pena è l’opposto della colpa) sia per analogia (la pena è l’estremizzazione della colpa). Pensiamo alle diete ferree che seguono, per contrappasso, gli stravizi natalizi; oppure a quegli studenti che, dopo aver perfezionato in anni di paziente studio l’arte di marinare la scuola, sperimentano ora il bizzarro contrappasso di non poterci tornare.
Inoltre questa parola ha nel lessico dantesco una profondità che il suo equivalente latino non possedeva e che oggi vale la pena di riscoprire. In effetti si può dire che qui si condensino due tra i più grandi misteri dell’esistenza.
Il primo è quello che, orientaleggiando, potremmo chiamare anche ‘karma’: l’idea che l’universo sia regolato da un sistema di equilibri misterioso ma coerente. In quest’ottica ogni azione genera una risposta che può essere uguale e contraria (come comanda il terzo principio della dinamica) oppure equivalente nella sostanza ma moltiplicata nella quantità (“Chi semina vento raccoglie tempesta”). Detto in altri termini, la vita è una danza di passi e contrappassi solo parzialmente comprensibili, che Dante ci fa sbirciare da dietro le quinte.
Il secondo aspetto, su cui il poeta insiste moltissimo, è quello del libero arbitrio. Le pene dei personaggi infatti non sono frutto di una decisione calata dall’alto: l’aldilà porta alle estreme conseguenze ciò che ogni anima ha scelto di essere. E questo è forse l’aspetto più crudele delle pene dei dannati, costretti a restare uguali a se stessi per l’eternità, pietrificati nella propria colpa.
Pensiamo a Paolo e Francesca, preda di una passione che non potranno mai soddisfare, obbligati a veder soffrire per sempre l’essere amato e a ricordare che per colpa sua si sono dannati. Peggio ancora, pensiamo al conte Ugolino: torturato dall’odio divorante per l’arcivescovo Ruggieri, nonché dal senso di colpa per aver causato la morte dei propri figli (e, presumibilmente, per averli mangiati). In questo senso l’inferno non è che la memoria privata della speranza.
Va detto però che il contrappasso, rovesciato in positivo, vale anche per i beati. La loro condizione cioè è un riflesso, sebbene perfetto ed eterno, delle loro scelte e del loro carattere. In effetti proprio questa è per Dante l’essenza della santità: realizzare pienamente – o, per usare un’altra parola di sua invenzione, inverare – quello che ciascuno è in potenza.