Etimologia dal latino desolàre ‘abbandonare, lasciare solo, rendere deserto, composto di de- ‘da’ e solus ‘solo’.
Ancora una volta un participio passato ha più successo del resto del verbo - e ha acquistato la dignità autonoma di aggettivo. Ma guardiamolo tutto, coi suoi parenti: qui l’etimologia dà una mano sorprendente a capire la cifra del desolare.
D’acchito lo accostiamo al devastato, e quindi potremmo indovinare un legame ideale col ‘radere al suolo’, ma il percorso è più sottile: il desolare ci parla di solitudine. Recuperato dal latino nel XIII secolo, il desolare lì aveva giusto i significati di abbandonare, lasciare solo, e riferito a luoghi di spopolare, lasciare deserti. Straziante come l’immagine del ‘solo’ sia rinforzata da un ‘de-’ di allontanamento in modo così essenziale.
Noi non colleghiamo più il desolare alla solitudine, almeno in superficie; ma nel significato di addolorare profondamente, di affliggere, stende un colore che non sa di demolizione, quanto piuttosto di impotenza, di abbandono. Non mi desola un dolore fisico, non mi desola un’ansia condivisa sul lavoro; mi desola un lutto, un fallimento, ciò che non riesco a comunicare. La desolazione di un teatro può essere a teatro vuoto o a teatro strapieno, dipende se c’è o meno comunione nel suo gioco: il teatro può non essere desolato e anzi essere traboccante di comunicazione durante le prove con le voci che si perdono nel buio, può essere desolato alla prima, manierata e affollata, in cui nessuno partecipa della narrazione. Un bosco, esteso ai confini ultimi della civiltà, non è desolato, non desola - anzi.
È una parola ricca e precisa: il desolare è l’infliggere un dolore incomunicabile, solo, un devastare spopolando, senza che resti voce. Un dolore che è inutile gridare.
Come stona, come diventa graffiante, quando viene usato con leggerezza, con ironia. «Desolato, non la posso aiutare.»
Ancora una volta un participio passato ha più successo del resto del verbo - e ha acquistato la dignità autonoma di aggettivo. Ma guardiamolo tutto, coi suoi parenti: qui l’etimologia dà una mano sorprendente a capire la cifra del desolare.
D’acchito lo accostiamo al devastato, e quindi potremmo indovinare un legame ideale col ‘radere al suolo’, ma il percorso è più sottile: il desolare ci parla di solitudine. Recuperato dal latino nel XIII secolo, il desolare lì aveva giusto i significati di abbandonare, lasciare solo, e riferito a luoghi di spopolare, lasciare deserti. Straziante come l’immagine del ‘solo’ sia rinforzata da un ‘de-’ di allontanamento in modo così essenziale.
Noi non colleghiamo più il desolare alla solitudine, almeno in superficie; ma nel significato di addolorare profondamente, di affliggere, stende un colore che non sa di demolizione, quanto piuttosto di impotenza, di abbandono. Non mi desola un dolore fisico, non mi desola un’ansia condivisa sul lavoro; mi desola un lutto, un fallimento, ciò che non riesco a comunicare. La desolazione di un teatro può essere a teatro vuoto o a teatro strapieno, dipende se c’è o meno comunione nel suo gioco: il teatro può non essere desolato e anzi essere traboccante di comunicazione durante le prove con le voci che si perdono nel buio, può essere desolato alla prima, manierata e affollata, in cui nessuno partecipa della narrazione. Un bosco, esteso ai confini ultimi della civiltà, non è desolato, non desola - anzi.
È una parola ricca e precisa: il desolare è l’infliggere un dolore incomunicabile, solo, un devastare spopolando, senza che resti voce. Un dolore che è inutile gridare.
Come stona, come diventa graffiante, quando viene usato con leggerezza, con ironia. «Desolato, non la posso aiutare.»