Irto

ìr-to

Significato Ispido, drizzato, spinoso (detto di peli e simili); con molte sporgenze appuntite, acuminate; pieno di difficoltà; aspro, ruvido

Etimologia voce dotta, recuperata dal latino hirtus ‘ispido, arruffato, spinoso’.

Quando una parola sa fare bene il suo lavoro si vede, si sente. Ci rende un’immagine e un tessuto di sensazioni che si stende bene sul mondo in una quantità di casi anche molto differenti, dal concreto al figurato: sono le parole che riescono cogliere un’impressione essenziale e ricorrente che trova tante corrispondenze nell’esperienza.

‘Irto’ è un aggettivo spaventosamente rappresentativo, non solo già a livello sonoro, ma addirittura grafico — secco, vibrante, scuro, una successione di aste. L’hirtus latino, da cui deriva, ha dei significati quasi programmatici: è ispido, è arruffato, è peloso, è spinoso. Il primo punto interessante è che si tratta (come nel caso dell’hirsutus da cui ‘irsuto’) di un derivato di horrere, che dall’altra parte genera il drizzamento di peli dell’orrore.

L’irto ha quindi un primo nucleo che ci parla di una pelosità che non è quella folta e disciplinata di un amichevole e soffice cincillà, ma dura, ispida fino al puntuto e allo spinoso, disordinata. È così che inizia la trasfigurazione dell’irto, dalla continuità fra pelo e spina.

Può essere irta di peli graffianti la guancia del babbo, è irta la spiga d’orzo (peraltro, ‘orzo’ è della stessa famiglia etimologica proprio per questo), il sorridente riccetto che troviamo in giardino è irto di aculei, e cerchiamo una scorciatoia idiota fra gli inestricabili irti sarmenti del macchione di rovi — troveranno il modo di tirarci fuori in serata. Se l’irto si fermasse qui la sua progressione di significati non sarebbe però straordinaria. Fa di più.

Così come individua su una pelle, su un fusto una serie di punte che — oibò — pungono, l’irto si estende a ogni superficie con sporgenze acuminate. Passeggiamo svagati fra i bancali spaccati e irti di schegge e chiodi arrugginiti, cerchiamo un punto in cui farci un tuffetto lungo la costa irta di scogli affilati, e le piante nude e secche rendono irto il profilo del colle d’inverno su cui sale la nebbia (occhiolino).

Già questo tipo di poesia è formidabile, con un risvolto di corrispondenza panica fra il nostro corpo e il mondo, eccezionalmente sintetica (questo mondo irto fa venire in mente quei versi di Meriggio di D’Annunzio — «[...] e il fiume è la mia vena, / il monte è la mia fronte, / la selva è la mia pube, / la nube è il mio sudore. / E io sono nel fiore / della stiancia, nella scaglia / della pina, nella bacca, / del ginepro: io son nel fuco, / nella paglia marina, / in ogni cosa esigua, / in ogni cosa immane, / nella sabbia contigua, / nelle vette lontane [...]»).

Però l’irto va ancora avanti. Così come quella superficie irta è (o pare) difficile da percorrere, ricca di asperità com’è, l’irto diventa ciò che è pieno di difficoltà. L’impresa si rivela irta di pericoli (un classico...), l’articolo che dobbiamo leggere è irto di cultismi che ce lo rendono ostico, il comunicato sibillino è irto di doppi sensi da interpretare. Inoltre, spostando questa superficie ostile sull’animo umano, diventa irta la persona burbera, aspra, ruvida (o magari zotica). Così si parla della gente irta che frequenta il baretto, la sola fra cui ci sentiamo a nostro agio, o dei buoni gesti di una persona che si presenta irta.

Parola umile, parola antica. Parte dalla pelle e resta sulla pelle, trovando pelle in ogni scampolo di mondo. Nei discorsi in cui la troviamo, anche senza appartenere a un registro necessariamente alto, si distingue per maestria d’espressione.

Parola pubblicata il 20 Aprile 2023