Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo proloquium ‘assioma, sentenza’, derivato di proloqui ‘esporre’, derivato di loqui ‘parlare’ col prefisso pro- ‘avanti’.
A stento si può dire che questa parola esista in italiano, anzi, che sia mai esistita. Eppure, quello che ha tutta l’aria di essere un suo diretto derivato, lo sproloquio, è un elemento vivo e vitale delle nostre conversazioni — sproloquiamo e indichiamo sproloqui a tutto spiano.
In effetti, il proloquio ha fatto delle comparse talmente sporadiche (dal Cinquecento in poi) che molti dizionari etimologici di valore affermano che ‘sproloquio’ derivi direttamente dal proloquium latino, preso in prestito e dotato di un prefisso s- che lo intensifica in una gran sbrodolatura. Ma soltanto capendo bene il proloquio si può tenere bene in mano la carica comica della sua esagerazione.
Il proloquium latino, così come il proloquio italiano in certe sue apparizioni, poteva essere la prefazione, l’introduzione, ma non dobbiamo pensare che quel pro-caratterizzi solo un antecedente: anzi, il verbo proloqui era per certi versi semplicemente un esporre, che direziona figuratamente avanti il parlare, verso altri e con un fine. Tant’è che in realtà il proloquium era soprattutto la massima, l’assioma, la sentenza. E come tale era inteso anche il nostro fantasmatico proloquio.
Se pensiamo a un discorso ricco di massime, che grandina una gragnola di postulati ed è stentoreamente sentenzioso già non ci sentiamo a nostro agio; se poi pensiamo di intensificare questi suoi caratteri, otterremo definitivamente un discorso enfatico, sussiegoso, prolisso e inconcludente come solo i discorsi a briglia sciolta sanno essere — oltre che eccezionalmente noioso e tendenzialmente antipatico.
Così riusciamo a cogliere che la forza dello sproloquio è nella sbavatura introgolata del proloquio, suo antecedente logico (resa anche con una sonorità delle più felicemente sgraziate): un tipo particolarmente serio di pronunciamento — in cui sono tessute le fila dell’esordio, del giudizio, dell’aforisma, dell’apoftegma — di cui, visto che da generazioni immemorabili siamo boccacce dissacranti, ci piace fare iperboli che lo rendano goffo, matto e grottesco.
Ed è bello tornare a pensare questo: non è raro che sia nelle parole in ombra e coperte di muschio della nostra lingua la chiave per capire appieno quelle scontate in luce piena.
A stento si può dire che questa parola esista in italiano, anzi, che sia mai esistita. Eppure, quello che ha tutta l’aria di essere un suo diretto derivato, lo sproloquio, è un elemento vivo e vitale delle nostre conversazioni — sproloquiamo e indichiamo sproloqui a tutto spiano.
In effetti, il proloquio ha fatto delle comparse talmente sporadiche (dal Cinquecento in poi) che molti dizionari etimologici di valore affermano che ‘sproloquio’ derivi direttamente dal proloquium latino, preso in prestito e dotato di un prefisso s- che lo intensifica in una gran sbrodolatura. Ma soltanto capendo bene il proloquio si può tenere bene in mano la carica comica della sua esagerazione.
Il proloquium latino, così come il proloquio italiano in certe sue apparizioni, poteva essere la prefazione, l’introduzione, ma non dobbiamo pensare che quel pro- caratterizzi solo un antecedente: anzi, il verbo proloqui era per certi versi semplicemente un esporre, che direziona figuratamente avanti il parlare, verso altri e con un fine. Tant’è che in realtà il proloquium era soprattutto la massima, l’assioma, la sentenza. E come tale era inteso anche il nostro fantasmatico proloquio.
Se pensiamo a un discorso ricco di massime, che grandina una gragnola di postulati ed è stentoreamente sentenzioso già non ci sentiamo a nostro agio; se poi pensiamo di intensificare questi suoi caratteri, otterremo definitivamente un discorso enfatico, sussiegoso, prolisso e inconcludente come solo i discorsi a briglia sciolta sanno essere — oltre che eccezionalmente noioso e tendenzialmente antipatico.
Così riusciamo a cogliere che la forza dello sproloquio è nella sbavatura introgolata del proloquio, suo antecedente logico (resa anche con una sonorità delle più felicemente sgraziate): un tipo particolarmente serio di pronunciamento — in cui sono tessute le fila dell’esordio, del giudizio, dell’aforisma, dell’apoftegma — di cui, visto che da generazioni immemorabili siamo boccacce dissacranti, ci piace fare iperboli che lo rendano goffo, matto e grottesco.
Ed è bello tornare a pensare questo: non è raro che sia nelle parole in ombra e coperte di muschio della nostra lingua la chiave per capire appieno quelle scontate in luce piena.