> Grammatica dubbiosa

Gli accenti arbitrarî dell’italiano

Un articolo lungo, che spiega nel dettaglio che cosa sono gli accenti, come si comportano e quali sono le incoerenze delle regole che li riguardano in italiano. Perché avere dubbi sulle regole che seguiamo è importante quanto conoscerle.

Nella cosmogonia degli aborigeni australiani, ci racconta il capolavoro di Bruce Chatwin, Le vie dei canti, gli animali, le piante, i fiumi e le montagne hanno avuto origine non dal comando verbale di un Dio che li ha nominati, ma dalle voci di antenati totemici che agli albori della civiltà li hanno dati alla luce cantandoli

Passando dalla mitologia alla scienza, già Darwin sosteneva che i primi esseri umani avessero ‘cantato’, cioè modulato suoni non verbali, prima di imparare a parlare, e il linguista danese Otto Jespersen, in un suo scritto del 1922, indicava come scopo delle forme primitive di espressione vocale umana non il comunicare pensieri e informazioni, ma piuttosto l’esternare sentimenti e stati d’animo, specialmente ludici e gioiosi, che assumevano una forma naturaliter melodica. Tale uso “frivolo” avrebbe “accordato” lo strumento, rendendolo pian piano funzionale alla comunicazione verbale complessa.

Le teorie sull’origine del linguaggio umano, inevitabilmente, sono tante, e nessuna dimostrabile. Di certo, però, sappiamo che l’oralità è venuta prima della scrittura, che il parlato è una catena di suoni che si susseguono, e che questa sequenza possiede le medesime caratteristiche delle frasi musicali: ritmo, tempo di esecuzione, intonazione, accenti. Ognuno di questi caratteri, nel momento in cui il parlato viene trascritto, è più o meno (o punto) traducibile in forma grafica mediante i segni di interpunzione e gli accenti.

Gli accenti del parlato

Quando pronunciamo degli enunciati, alcune parti della catena parlata — certe sillabe, e specialmente le vocali che contengono — vengono emesse in modo più forte di altre, per cui si dice che sono accentate (o toniche), mentre le sillabe non accentate sono dette atone. Tutte le lingue, con pochissime eccezioni, sono dotate di accenti. Ma in che senso certi foni (suoni del linguaggio) sono emessi ‘più forte’ rispetto ad altri?

Quando delle sillabe sono pronunciate più intensamente, con maggior forza espiratoria, si dice che recano un accento dinamico, intensivo o espiratorio. Se invece le si pronuncia con maggiore altezza melodica (dipendente dalla frequenza di oscillazione delle corde vocali), il loro accento si definisce melodico o musicale. Una terza caratteristica a rendere prominente una sillaba è che sia pronunciata con una durata relativa maggiore rispetto ad altre.

In molte lingue, tra cui la nostra, tutti e tre questi modi di dare risalto ad una sillaba non solo coesistono, ma spesso coincidono (una vocale su cui cade l’accento espiratorio, di norma, è anche più lunga e più alta di tono rispetto ad una non accentata). Tuttavia, uno di essi è prevalente, nel senso che è maggiormente percepito dai parlanti e, soprattutto, ha valore distintivo — è in grado da solo, cioè, di distinguere una parola da un’altra. 

Gli accenti con funzione distintiva

In italiano, solo l’accento dinamico ha funzione distintiva. Se Ivano Fossati, cantando, pronuncia la parola mare allungando oltremodo la prima sillaba (il mmaaare), il referente si fa più evocativo ma resta sempre lo stesso. In latino, invece, la lunghezza di una vocale fa la differenza: ad esempio, ŏs (con la o breve) significa ‘osso’, mentre ōs (con la o lunga) è ‘bocca’. Parimenti, se proclamo che vincerò modulando le vocali in modo più o meno acuto o grave, il significato resterà lo stesso, ma se pronuncio la parola ancóra dando più intensità alla prima sillaba, diventa àncora.

Al contrario, nelle lingue dette tonali, in cui l’accento è prevalentemente musicale (come il greco antico, il cinese mandarino e molte lingue africane), la modifica del tono, cioè l’altezza melodica di una sillaba, dà luogo a parole diverse: in cinese standard, per esempio, la stessa sillaba, ma, a seconda che sia pronunciata con tono piano, ascendente, discendente-ascendente o discendente, significa rispettivamente madre, canapa, cavallo o rimproverare.

Dove cadono gli accenti

Oltre che la natura, anche la posizione dell’accento cambia nei diversi idiomi. Talora essa è fissa all’interno della parola: in armeno, per esempio, quasi tutti i vocaboli sono ossitoni, ovvero accentati sull’ultima sillaba (solitamente lo si dice anche del francese, ma la questione è più complessa); in ceco, finnico e ungherese l’accento cade quasi sempre sulla prima; in polacco, normalmente sulla penultima. Altrove, invece, come in italiano, spagnolo e inglese, l’accento ha una posizione variabile, imprevedibile. 

In realtà, piuttosto che di accento al singolare, si dovrebbe parlare di accenti: ogni vocabolo che abbia quattro (talvolta anche tre) o più sillabe presenta, oltre all’accento primario, anche uno o più accenti secondari. Ad esempio, in restituiscimelo, oltre all’accento principale sulla seconda i, ce n’è uno anche sulla vocale finale (restituìscimelò), mentre nell’avverbio particolareggiatamente, oltre a quello più forte sulla penultima, ve ne sono altri tre (pàrticolàreggiàtaménte).

È importante sottolineare, inoltre, che nel ritmo del parlato, in quanto concatenazione di suoni, non c’è separazione tra le parole. In un enunciato l’insieme delle sillabe costituisce un unico gruppo ritmico, per cui non tutte le sillabe toniche in una parola presa di per sé saranno altrettanto prominenti in un insieme. Prendiamo lo stupendo ultimo verso del canto XXVI dell’Inferno, quello del “folle volo” di Ulisse: infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso. È evidente che qui gli accenti principali cadono sulla quarta, sull’ottava e sulla decima sillaba (infìnchelmàrfusopranòirichiùso), mentre quelli sulla seconda e sulla sesta sono secondari.

L'accento sdrucciolo è raffinato

Tornando alle singole parole, in italiano l’accento, oltre che imprevedibile, non di rado è anche inafferrabile. Nel bel paese là dove 'l sì suona, la lingua è essenzialmente piana, in quanto la maggior parte delle parole lo è – d’altra parte, piano significa proprio questo: regolare, liscio, piatto, mentre le parole sdrucciole hanno, letteralmente, subìto uno scivolone all’indietro e quelle tronche sono state brutalmente amputate.

Ciononostante, da tempo vi è una chiara tendenza a ritrarre l’accento. In teoria sarebbe corretto dire zaffìro, salùbre, guaìna, facocèro, amàca, incàvo, cadùco, cucùlo, infìdo, ma moltissime persone pronunciano queste parole con l’accento sulla prima sillaba; per non parlare di voci verbali come istìgo, valùto ed evapòro che, pur definite dai vocabolari tuttora ‘più corrette’ delle loro varianti sdrucciole, se pronunciate suscitano sconcerto e stupore in chi ascolta. A quanto pare, le forme sdrucciole sono percepite dai parlanti come più ‘raffinate’, e quindi scelte istintivamente in caso di dubbio. E però – tanto per complicare vieppiù le cose – accade anche il contrario, come in anòdino, seròtino, àlacre, ùpupa, lùbrico e medìceo, che si sentono assai spesso pronunciare piane.

Pronuncia alla greca, pronuncia alla latina

Un discorso a parte va fatto per i termini di origine greca giunti a noi attraverso il latino (ma a volte anche direttamente, in epoca moderna), che rappresentano una fonte assai copiosa di dubbi. Avendo le due lingue regole di accentazione diverse, capitava spesso che tra una parola greca e la corrispondente latina gli accenti differissero. Il dilemma, dunque, in questi casi è: pronunciare alla greca o alla latina? A dar retta alla regola generale, essendo l’italiano una lingua neolatina, è al modo dei latini che le parole di origine greca vanno pronunciate (abbiamo approfondito la questione in questo articolo qui).

Perciò diciamo paradìso e non paràdiso, chimèra e non chìmera, tragèdia e non tragedìa. Ma allora, perché diciamo filosofìa, prògnosi e parodìa, alla greca, e non filosòfia, prognòsi e paròdia, alla latina? Mistero. Almeno, però, in questi casi nessuno ha dubbi di pronuncia, mentre in molti altri, specie quando si tratta di termini tecnici e non di parole di uso comune, i dubbi vengono eccome. E in che modo si esce dall’impasse, con queste parole? Beh, senza scontentare nessuno, che diamine! Vocabolario alla mano, si può dire sclèrosi e scleròsi, diùresi e diurèsi, metonìmia e metonimìa, farìngeo e faringèo, mìmesi e mimèsi, èdema e edèma, ossìmoro e ossimòro, alopècia e alopecìa.

Attenti, però. Se cotanto trionfo di spirito ecumenico grammaticale vi ha sedotti all’istante, inducendovi ad abbassare pericolosamente la guardia, eccovi servito, qual salutare antidoto, un bizantinismo bello, buono, duro e puro: la parola che cambia accento a seconda della funzione. Piana quando è sostantivo (utensìle), sdrucciola quando è aggettivo (macchina utènsile). Pratico, no?


Gli accenti grafici

Ci si potrebbe aspettare che, in quegli idiomi in cui la posizione dell’accento è imprevedibile, nella scrittura esso sia sempre rappresentato da un segno grafico, così come accade in greco. Ma le cose, lo sappiamo, non stanno così. In certe lingue l’accento grafico semplicemente non esiste – è il caso, tra gli altri, dell’inglese e del tedesco.

Altre volte, come in francese, gli accenti grafici esistono ma servono non ad indicare la sillaba tonica, bensì a distinguere la pronuncia di una vocale – ad esempio, é (con l’accento acuto) per la e chiusa ed è (con l’accento grave) per quella aperta – oppure a disambiguare due parole omografe ( avverbio, ‘dove’, e ou congiunzione, ‘o’).

In spagnolo, invece, gli accenti grafici consentono sempre di individuare la sillaba accentata, anche se la regola è un po’ macchinosa: le parole sdrucciole o bisdrucciole hanno sempre l’accento sulla sillaba tonica; le tronche sono accentate se terminano in -s, -n o vocale; quelle piane, al contrario, recano l’accento quando non terminano in -s, -n o vocale.

La norma italiana

Respinte le proposte di alcuni linguisti, volte a rendere palese la pronuncia di ogni vocabolo (segnando sempre l’accento sulle vocali toniche, oppure solo sulle parole non piane), la regola di base nella nostra lingua è che l’accento si segna solo sui polisillabi tronchi come caffè, perché, laggiù, tornerò. In tutti gli altri casi – parole piane, sdrucciole, bisdrucciole e trisdrucciole – l’accento non si scrive. 

Sui monosillabi, dunque, di norma l’accento non si segna, a meno che non abbiano due vocali, e quindi due possibilità di accentazione: più, per esempio, in teoria potrebbe essere pronunciato pìu (e lo stesso vale per già, giù, può e ciò). Nondimeno, l’accento è obbligatorio anche su certi monosillabi monovocalici che in teoria potrebbero confondersi con parole omografe, come il verbo e la preposizione da, la congiunzione e il pronome ne, l’avverbio di luogo e l’articolo femminile la

Infine, càpita (come qui, appunto) di trovare l’accento grafico anche su sillabe non finali, per disambiguare in caso di parole omografe (tra le altre, àncora-ancóra, prìncipi-princìpi, sùbito-subìto). In base alla regola generale sull’accentazione, chiaramente, in questi casi segnare l’accento è sempre facoltativo, come forma di ‘cortesia’ nei confronti di chi legge.

In apparenza sembra tutto chiaro. Ma il diavolo, si sa, è sempre nei dettagli. 

Casi spinosi

Il pronome personale , in quanto altrimenti omografo sia della congiunzione sia della forma debole del pronome (se lo criticano se la prende), va scritto sempre con l’accento, e fin qui nulla quaestio.

Sé stesso, sé medesimo
Da decenni però, qual vento spirante dalle aule scolastiche, si è diffusa la presunta regola per cui, quando sia seguito da stesso o medesimo, andrebbe scritto senza accento, non esistendo più alcun rischio, in quel contesto, di confonderlo con la congiunzione. Non stupisce che Serianni, nella sua Grammatica, liquidi la regoletta come “senza reale utilità”, asserendo che “è preferibile non introdurre inutili eccezioni e scrivere sé stesso, sé medesimo”. 

Su, do, da dà, di dì, la là
Sorprende assai, invece, che nel medesimo testo, poche righe prima, si legga: “Superfluo invece l’accento sull’avverbio (per distinguerlo dalla preposizione; il contesto risolve ogni dubbio) e su verbo (per distinguerlo dalla nota musicale; confusione molto improbabile)”. È decisamente bizzarro che in un caso si sconsiglino, ritenendole “inutili”, eccezioni motivate dall’inequivocità del contesto (ragionamenti che Canepari, più radicale, definisce “cervellotiche motivazioni da perdigiorno e azzeccagarbugli”), e in un altro si proponga esattamente il medesimo criterio. A ben vedere, quasi mai si dà effettiva possibilità di confusione tra monosillabi omografi. Forse che davvero, in una frase, si può confondere l’articolo la con l’avverbio ? O il sostantivo con la preposizione di? Addurre questo criterio come norma per apporre l’accento distintivo sui monosillabi appare, sempre e comunque, poco sensato.

Eccezioni inutili
Oltretutto, proprio alcuni tra i casi correntemente ritenuti immuni dalle confusioni dovute all’omografia sono, di fatto, più ‘equivocabili’ di altri. Trovandomi, ad esempio, davanti a un foglio recante le parole se stessi (o se stesse), come potrei sapere se si tratta della sequenza pronome + aggettivo (rispettare se stessi) o di quella congiunzione + verbo (se stessi bene farei una passeggiata)? Di qui la proposta di qualche grammatico di scrivere sé stessi e sé stesse con l’accento, mentre se stesso e se stessa, dove la possibilità di confusione non esiste, senza. Ma qui siamo davvero all’apoteosi delle inutili eccezioni!

Perché 'su' non dovrebbe avere l'accento?
Interessante anche il caso di . Tre volte ho dovuto digitare questa parola per sconfiggere il mio programma di scrittura, che in automatico elimina l’accento. E in effetti, almeno qui paiono tutti d’accordo: su non si accenta mai. Ma perché? Questo monosillabo, evidentemente, svolge due distinte funzioni: preposizione (sto su una gamba sola) e avverbio di luogo (tìrati su). Perché dunque non differenziarne la grafia, come nel caso di la e , si e ? Forse perché non esiste possibilità di confusione? Prendiamo questo inizio di frase: “Mio cugino ha messo su…”. Potrei continuarla così: “Mio cugino ha messo su un vassoio trenta bicchieri”, e in questo caso su è una preposizione, oppure così: “Mio cugino ha messo su dieci chili in tre mesi”, e su diventa un avverbio. Allora, volendo proprio argomentare contro l’accentazione di su, al limite si potrebbe notare che qui si tratta della stessa parola che svolge funzioni differenti, non di due parole diverse.

Le note musicali
Anche il caso delle note musicali, apparentemente, non è per nulla controverso. Tutti sono d’accordo sul fatto che ‘non contano’, perché nessuno le confonderebbe con le parole omografe; dunque non c’è motivo di accentare, poniamo, il verbo do. Ora, a parte la già notata intrinseca debolezza, a dir poco, di tale giustificazione, stupisce vedere che, nel suo Vademecum sull’accento, l’Accademia della Crusca accomuni, dentro la medesima raccomandazione su cosa non accentare, il caso di do e quello di sto: «Scrivete do (prima persona del presente indicativo di dare) e soprattutto sto (prima persona del presente indicativo di stare) sempre senza accento: ‘Ti do ragione’, ‘Sto qui ad aspettarti’». In realtà, è chiaro che le due situazioni non sono paragonabili: mentre non esiste un omografo di sto (e quindi nemmeno il problema), ne esiste invece uno di do. Anche qui, allora, piuttosto che giustificare la non apposizione dell’accento con la solita, frusta motivazione della non equivocità, sarebbe il caso di argomentare diversamente – rilevando, ad esempio, che le note musicali sono tutte quante omografe di altre parole italiane: se si scrivesse io do con l’accento, bisognerebbe scrivere anche il rè è morto, mi fà male la pancia, il sòl dell’avvenire.

E le altre tre note? In italiano, l’avverbio e l’affermazione , accentati per distinguerli dall’articolo e dal pronome, esistono già, il che significa che in quei casi vi sono tre parole potenzialmente omografe. A questo punto, è legittimo chiedersi (e gli alunni, a scuola, talvolta lo fanno): data la necessità di disambiguare due (o tre!) monosillabi, su quale di essi va segnato l’accento? Una volta escluso di accentare le note musicali (cosa, in teoria, possibilissima), la scelta è del tutto ovvia. Se prendiamo la lista dei monosillabi monovocalici da accentare obbligatoriamente (è, , , , , , , , ), notiamo subito che i loro corrispettivi sono quasi tutti pronomi atoni o preposizioni, congiunzioni e articoli (atoni di per sé), mentre verbi, nomi, parole olofrastiche e avverbi di luogo sono, in un enunciato, normalmente accentati. Ecco perché, anche volendo ‘prendere sul serio’ le note musicali, sarebbe impossibile accentare il pronome mi (non *mì piace il riso) per differenziarlo dalla nota. Tale argomento, peraltro, segna un ulteriore punto a favore dell’accentare su quando è avverbio di luogo, dato che esso reca sempre l’accento tonico, mentre la preposizione mai.

Accenti diversi

Finora, abbiamo parlato dell’accento grafico senza specificarne il tipo. Come in francese, infatti, anche in italiano esistono l’accento acuto (´), quello grave (`) e quello circonflesso (^). Quest’ultimo, decisamente obsoleto, può essere posto sulla i finale nel plurale delle parole in -io (solo se la i è atona), per segnalare la contrazione delle due vocali (ad esempio, indizî per indizii, contraddittorî per contraddittorii, varî per varii, ma non *mormorî per mormorii). Oggi, tuttavia, tanto la doppia i quanto l’accento circonflesso stanno soccombendo alle forme semplici: indizi, contraddittori, vari

Quanto agli accenti acuto e grave, a tutt’oggi non esiste una norma del tutto condivisa. Secondo quella prevalente, l’accento è sempre grave sulla a, sulla i e sulla u, mentre e ed o, se pronunciate aperte – come in caffè, cioè, oblò e tornerò — recano l’accento grave, altrimenti — come in perché, poté, vólto (nel senso di viso, per distinguerlo dal participio passato di volgere) — quello acuto. Un secondo sistema, che ha ancora diversi ‘estimatori’, prevede che l’accento acuto si segni non solo su e ed o se chiuse, ma anche sulla i e sulla u, vocali chiuse di per sé.

Peraltro, a molti italiani riesce difficile scegliere se scrivere la é con accento acuto o la è con accento grave, giacché nella maggior parte delle regioni la pronuncia delle vocali non corrisponde a quella standard: se nel settentrione (e non solo) si pronuncia perché con la e aperta, ad esempio, vi è un’evidente contraddizione tra la pronuncia e la grafia richiesta. Per fortuna, riguardo alla o il problema non si pone: in italiano la o finale accentata è sempre pronunciata aperta, quindi nei casi in cui la o è chiusa l’accento acuto (come nel citato vólto) non è mai obbligatorio. 

Accenti e apostrofi

In teoria, l’accento e l’apostrofo non dovrebbero avere nulla a che spartire; eppure, nell’italiano scritto non mancano le ambiguità al riguardo. Quando una parola subisce l’apocope o troncamento — cioè la caduta di un fono o una sillaba alla fine di una parola — se termina per vocale di norma prende l’apostrofo. Alcuni esempi fra i tanti: un po’, a mo’ di, be’, to’; i verbi all’imperativo va’, da’, di’, fa’, sta’; gli antiquati (o regionali) i’ per io, de’ per dei, ne’ per nei, su’ per suo e via troncando.

Ma perché, allora, alcune parole chiaramente apocopate, come piè (troncamento di piede) e (apocope di fede), recano l’accento? Nel primo caso, va osservato che ci sono in letteratura esempi anche di pie’ scritto con l’apostrofo (Gadda, ad esempio, usava entrambe le forme, apostrofata e accentata), ma alla fine la variante accentata ha prevalso, probabilmente per analogia con gli altri monosillabi bivocalici (più, già ecc.) in cui l’accento serve a segnalare la pronuncia ossitona. L’accentazione di è ancora più problematica: intanto, anche qui esistono esempi di scrittura con l’apostrofo, e poi la parola, oltre che di fede, può essere anche apocope di fece. Dato che in questo secondo caso, in genere, si usa l’apostrofo, l’accento su nel senso di fede serve ad evitare l’omografia.

A questo punto, qualcuno osserverà che si scrivono con l’accento anche città, virtù e bontà – forme apocopate, rispettivamente, di cittade, virtude e bontade. Ma attenzione: in questi casi di apocope aplologica (finalizzata ad evitare ripetizioni cacofoniche in espressioni come cittade de Ferrara o virtude degli antichi eroi), la caduta di quelle sillabe è un ricordo ormai lontano; la parola intera, sempre viva nell’apocope, qui invece è diventata un fossile

In tutto ciò, l’aspetto più curioso è che se di norma, come si è visto, l’italiano rifugge dalle parole tronche in favore delle piane, qui invece se ne fabbrica una schiera (oltre a quelle già menzionate, anche libertà, pietà e molte altre). Ma tant’è: che c’importa della norma quando è in ballo l’eufonia, il buon gusto uditivo?

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