> Le famiglie delle parole

Come l’arabo vive ancora nella lingua siciliana e nella sua geografia fisica e umana

Espressioni tipiche della lingua siciliana che ormai abbiamo imparato a conoscere a livello nazionale, toponimi che abbiamo nell’orecchio e negli occhi, e soprattutto cognomi: un’eredità a tutto tondo, punto d’incontro fra archeologia e linguistica.

La Sicilia, nei libri di storia, è sempre definita, forse in maniera un po’ trita, ‘terra di grandi invasioni’. Ma è proprio così: tanti sono i popoli passativi, dai greci ai romani, dagli arabi ai bizantini ai normanni. Oggi partiamo alla scoperta dell’eredità araba, un patrimonio ancora vivo e scintillante nella lingua siciliana e nella geografia dell’isola.


Il parco archeologico della linguistica

Cognomi e toponomastica sono dei veri e propri tesori archeologici della linguistica: se li scortichiamo, strato dopo strato, possiamo arrivare fino al cuore del tempo e scoprire che cosa, o chi, si è nascosto per secoli dietro un suffisso o sotto una desinenza che di primo acchito può apparire tipica di un diminutivo ma che in realtà è ben altro. Da ciò si possono ricavare informazioni di importanza storica, linguistica e vieppiù antropologica.

Un grande linguista del secolo scorso, Giovan Battista Pellegrini (Cencenighe Agordino 1921 – Padova 2007) ha compiuto e pubblicato studi sia sulla toponomastica italiana che sulle influenze arabe nelle lingue neolatine, con particolare attenzione al caso siciliano.
La Sicilia è in effetti uno scrigno linguistico che nasconde delle perle arabe di lucentezza e purezza stupefacenti e non ci meraviglieremo se, nell’andare a guardare più da vicino, si troveranno analogie strepitose con certi toponimi spagnoli.

‘Si susì, annò alla finestra, taliò fora…’

Se si parla di lingua sicula, non si può trascurare la popolarissima figura del Commissario Montalbano, nato dalla penna di Andrea Camilleri (Porto Empedocle 1925 – Roma 2019), che ha esportato in italiano tante parole siciliane. Tra un cannolo frisco frisco offerto allo scorbutico Dottor Pasquano per invogliarlo a sbottonarsi un po’ circa le cause della morte dell’ultima vittima ed un’abbuffata di pasta ‘ncasciata cucinata dalle abili mani di Adelina e lasciata in forno per Salvo, assai nirbùso alla fine di una giornata nìvura, il lettore si appropria dolcemente e inconsapevolmente di termini e locuzioni siculi.

Tale e tanto è stato il potere di questo personaggio letterario e televisivo, comparso nel 1994 col romanzo ‘La forma dell’acqua’, che oggi, anno del Signore 2020, può accadere che una marchigiana che abiti oltralpe possa sbottare al telefono dicendo: ‘Non mi rompere i cabbasisi!’ senza che la napoletana dall’altra parte della cornetta abbia di che obiettare o non comprenda la frase. Per la cronaca, cabbasisi è un bell’esempio di eredità araba: prima di indicare in maniera metaforica i testicoli, significa cipero, o zigolo dolce, un tubero commestibile e dalle mille virtù, il cui nome botanico è Cyperus esculentus, e che in arabo si chiamava ḥabb ‘azīz, ovvero bacca preziosa.

Castelli, porti, ponti, montagne e molto altro…

Iniziamo quindi un grand tour siculo che ci porterà alla scoperta dei toponimi di origine araba che costellano la carta geografica: Calatafimi, Caltagirone e Caltanissetta, ad esempio, sono tutti accomunati da quel ‘cal’ o ‘calat’ che affonda le radici nel qal’at arabo, cioè ‘castello’, mentre Mongibello, Gibellina e Gibilrossa, che ci fanno pensare anche a Gibilterra, hanno in comune ‘gibel’, che viene dall’arabo jabal, ovvero ‘monte’. Che dire allora di Marsala e Marsamemi? Dietro c’è marsā, che significa ‘ormeggio’, ‘approdo’, un nome che si attaglia perfettamente a città portuali.

Un toponimo interessante è Alcantara. No, non stiamo parlando del tessuto, ma di un fiume che nasce dai Monti Nebrodi e si getta nello Ionio, a metà strada tra Messina e Catania. Al-qanṭar, da cui proviene, significa ‘il ponte’. In Estremadura si trova una cittadina che si chiama proprio così, e a buon diritto: sorge sulle rive del fiume Tago e vi si trova il ponte eretto sotto l’imperatore Traiano, il più grande e il meglio conservato di tutti i ponti romani esistenti in Spagna.

Salemi, in provincia di Trapani, è un comune il cui nome ha un etimo ialino anche per i meno allenati: deriva da salām, ‘pace’, forse perché si tratta di un luogo ameno, dove riposare e ritrovare un po’ di… pace. Ma è anche un cognome molto diffuso, così come il ‘gemello’ Salemme.

I cognomi, una fonte inesauribile di informazioni

Sui cognomi ci si potrebbero scrivere interi volumi. Al di là della loro importanza nelle ricerche genealogiche, che molto spesso assomigliano a delle vere e proprie inchieste poliziesche, specie quando si devono andare a spulciare archivi polverosi e reconditi scaffali in parrocchie dimenticate da Dio, essi ci permettono di comprendere quali attività umane prevalevano in un luogo preciso in una certa epoca, o quali caratteristiche contraddistinguevano i membri di una famiglia.

In Sicilia sono diffusi cognomi che ci riportano indietro ai secoli della dominazione musulmana, tra l’827 e il 1072, e che sono sopravvissuti al regno normanno, a quello spagnolo e a tutte le altre vicissitudini storiche che hanno investito l’isola nei secoli. Ad esempio, il cognome Badalamenti, diffuso specialmente nel palermitano, sembra derivare da abd-al amin, ovvero ‘servo fedele’, anche se esiste una tesi, forse non peregrina, secondo cui questo cognome indicava le prefiche che ‘badavano ai lamenti’ durante i funerali. Zagarella, o Zagara, sono cognomi che fanno esplicito riferimento al fior d’arancio, dalla parola araba zahr, che significa ‘splendore’ ma anche ‘fioritura’.

Molto diffuso è il cognome Maimone, specie nel messinese. Esso deriva da Maimun (‘fortunato’) e non vi state sbagliando affatto se avete subito pensato al grande filosofo ebreo Moshé ben Maimun, meglio conosciuto come Maimonide. In effetti Maimone più che essere un cognome propriamente arabo, è di origine arabo-ebraica, il che fa davvero riflettere sulle pieghe che la Storia ha avuto e di come sia possibile srotolarle e dipanarne le fila attraverso l’etimologia.

Sciortino, cognome assai comune, deriva da surtī che significa ‘guardia’, ‘poliziotto’, mentre Morabito viene da murabit, ‘asceta’. Va menzionato anche Almirante, assai diffuso in tutto il meridione ed entrato in Italia attraverso il castigliano che lo ha mutuato dall’arabo al-amīr, ‘comandante’ ma anche ‘principe’. D’Alema è un cognome dall’origine molto affascinante: esso deriva dal verbo ‘alima ‘conoscere’, ‘sapere’. Al participio presente diventa ‘ālimun, cioè ‘sapiente’, che al plurale diventa ‘ālimūna ‘sapienti’. Niente male! Coloro che invece si chiamano Fragalà portano un cognome derivato da fāraǧ Allah, cioè ‘la gioia di Allah’.

Oltre il cognome

Fare un compendio esaustivo di tutti i cognomi siculi di origine semitica è cosa lunga. Per cui, sbriciando oltre e osservando la lingua siciliana nel suo insieme, possiamo ritrovare tracce arabe in molti altri campi semantici: quello botanico, come si è visto con cabbasisi, ma anche quello culinario, quello degli utensili quotidiani, delle strutture agricole…

Ad esempio, giuggiulena, che significa ‘sesamo’ è una parola diretta discendente di giulgiulān, così come zibibbo, un’uva che dà un vino dolce e liquoroso, viene da zabīb. Meno sorprendente forse è cassata, che di certo deriva dal latino caseum, cioè ‘formaggio’: essa è passata attraverso l’arabo qashata, avendo quindi la stessa sorte di aprole come fondaco o albicocca. Il cafìsu, una misura per l’olio di circa 16 litri, deriva da qafīz, che è tuttora utilizzata in Libia ed  equivale a circa 7 litri.

Tornando a Montalbano, in un vidiri e svidiri, non si può fare a meno di nominare due parole molto usate in tutti i romanzi e i racconti: taliari, cioè guardare, viene da tal’at, ovvero ‘altura’, un luogo strategico da cui si può osservare tutto attorno. Invece mischinu, ‘poverino’, un aggettivo segnatamente utilizzato per descrivere Dindò, spilungone col ciriveddru d’un picciriddro, vittima collaterale di un piano malvagio ne ‘La paura di Montalbano’, trae origine da miskīn, ‘povero’.

Non solo arabo…

Va ricordato che, quando gli arabi occuparono la Sicilia, una buona parte della popolazione parlava il greco e continuò a mantenere la parlata ellenica per lungo tempo, così da segnare la toponomastica e l’onomastica isolana ancor più dell’arabo. La cosa non sorprende in alcun modo, specie se si considera l’illustre passato dell’isola come parte della Magna Graecia. Per fare solo qualche piccolo esempio Craxi e Alicò sono cognomi siciliani di origine greca, così come Simeto, Asinaro, Imera, Anapo sono idronimi derivati dal greco.

Greci, romani, bizantini, arabi, normanni, spagnoli… che patrimonio, che mescolanza preziosa, che merletto variopinto ha dato vita a questa gemma del Mediterraneo! Arte, lingua, cucina, lo stesso paesaggio è stato plasmato dal susseguirsi di genti e di culture. La lingua della Sicilia sa rivelare i segreti di questa storia ventosa e tempestosa a chi sa ascoltare, a chi vuole osservare, a chi osa chiedere le giuste domande.

Sarà l’etimologia a rispondere!

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