> Le parole del cinema

Copia (non) originale

Il complesso rapporto fra parola e immagine, fra letteratura e cinema, attraverso uno splendido film su una scrittrice falsaria.

Il tamburellare delle dita sulla macchina da scrivere, un lungo sguardo vuoto al foglio bianco mentre il gatto di casa ti guarda sorpreso, appollaiato su una comoda mensola in salotto. Poi giù a testa bassa sui tasti per battere a macchina le parole di “altri”. «Eccomi davanti alla fottuta macchina da scrivere», è quello che pensa (e scrive) Lee poco prima di gettare la bozza e iniziare a battere un finto post-scriptum su una lettera originale di Fanny Brice, rubata il giorno prima in una biblioteca pubblica.

Ho un altro nipotino che ha preso il mio brutto naso, dovrei lasciargli un extra per farselo aggiustare?, aggiunge Lee alle parole di Fanny, un’appendice di ironico e sarcastico realismo che rendono la lettera “inestimabile”, come le viene detto dalla premurosa libraia pronta a darle trecento dollari per quel pezzo unico. Così inizia la carriera di biografa e falsaria di Lee Israel, raccontata nel film Copia Originale tratto dall’autobiografia Can You Ever Forgive Me? Memoirs of a Literary Forger.


Lee, burbera biografa di letterati, è senza lavoro e senza prospettive per colpa del tonfo editoriale della sua ultima opera. La sua ostinata misantropia le impedisce di riallacciare i rapporti con il suo editore, ma si accorge di poter guadagnare bene creando false lettere di defunti scrittori famosi per il circuito dei collezionisti. Se all’inizio tutti sono entusiasti dei falsi realizzati con la sua macchina da scrivere, al nascere di qualche sospetto sull’origine degli scritti, incorreggibile, Lee decide di rubare le lettere originali dagli archivi e dalle biblioteche, vendendole attraverso l’aiuto dell’unico amico e complice che le è rimasto.

Il legame tra parola e cinema difficilmente è mai stato forte come in questo film. Un adattamento cinematografico delle memorie di una biografa e falsaria — con tre candidature agli Oscar 2019 tra cui quella alla miglior sceneggiatura non originale (in beffa al titolo italiano). Un film sulla scrittura narrato dal punto di vista di una scrittrice comune, un film che guarda al mondo della letteratura con il disincanto del mestiere quotidiano, sbarazzandosi degli ornamenti che normalmente accompagnano la sua rappresentazione, e che vive di atmosfere e della forza delle immagini più che della capacità affabulatoria del romanzo. 

D'altronde l’immagine cinematografica è azione, emozione, e la parola al suo interno – quando è più calzante – è performativa, volta a suscitare una reazione nell'altro, essendo essa stessa reazione all'azione altrui. Il grande regista americano David Wark Griffith ce lo ha insegnato: il cinema non obbedisce alle regole della letteratura, si basa su regole diverse, fissate nel suo capolavoro Nascita di una nazione, un modello di narrazione basato sul movimento, sugli sguardi e sull'alternanza dei piani di ripresa, un codice tanto più efficace quanto privo della parola. I puristi dell’immagine sostengono che questa basti a se stessa, che il cinema muto sia l’espressione più essenziale e veritiera della settima arte, quella che ha più contribuito ad affrancare il cinema dalla preminenza della parola scritta e a farlo uscire dall'ombra del romanzo, per conquistarsi un ruolo di primo piano tra le arti.

Eppure il legame tra Copia originale e il romanzo da cui è tratto riflette a tutt'oggi l’influenza primigenia tra letteratura e cinema. Un legame che però lascia intatte, e anzi qui torna a sollevare, alcune questioni: l’immagine cinematografica è falsata o meno dalla parola? E la parola inquina la purezza dell’immagine o al contrario è capace di arricchire di senso l’immagine cinematografica, spingendola oltre i propri limiti visivi?

Il cuore di Copia originale presenta una risposta chiara ad un problema analogo, quando si chiede: i falsi di Lee Israel sono letteratura? Esistono o meno falsi d’autore? La risposta è nella reazione dell’impresario di libri antichi da cui Lee si presenta con un saluto impacciato e una giacca da pochi dollari, sfoggiata come fosse ad una grande occasione: «Vedo che qui vendete memorabilia e prime edizioni, vi interessate anche a lettere dattiloscritte e firmate?», gli chiede. Parole alla disperata ricerca di spontaneità a cui l’antiquario reagisce con una risata entusiasta, davanti a quelle lettere non può non mostrare interesse. «Sono straordinarie, sì, sono molto interessato […] difficile trovare delle lettere in cui si colga in filigrana la personalità dell’autore ma… in queste c’è tutto». E c’è tutta Lee Israel, in quelle parole che mostrano il talento mascherato della scrittrice agli occhi del mondo più di quanto riescano a farlo una giacca sdrucita e il suo goffo atteggiamento. Parole che solo Lee Israel, biografa, scrittrice nonché falsaria di professione, ha saputo infondere in quei lavori, nei suoi lavori.

Esistono o meno falsi d’autore? “Sì” è la risposta del film, a patto che il falsario possieda uno spiccato talento artistico. Una copia per definizione non è l’originale, ma forse – ci suggerisce il titolo – quando a produrre falsi è un autore di talento ciò che viene creato è proprio una copia originale.

Allora, così come Lee Israel falsificando documenti letterari infonde nuova linfa all'opera e alle biografie di grandi autori, anche la parola, deformando la presunta purezza dell’immagine, l’arricchisce di ulteriore senso artistico. Come Lee Israel con le sue copie originali, la parola apporta un significato all'immagine cinematografica che solo il talento espressivo della scrittura è in grado di aggiungere, spingendola dove l’immagine da sola non potrebbe arrivare.

Basti pensare ad una qualsiasi tra le pellicole di Terrence Malick, da I giorni del cielo a La sottile linea rossa fino alla Palma d’Oro The Tree of Life: sebbene il regista americano rifiuti nettamente un canovaccio scritto, una sceneggiatura ferrea da seguire passo dopo passo, non si preclude assolutamente all’uso suggestivo della voce fuori campo, ma anzi ne coglie appieno il piano evocativo, contribuendo ad innalzare il livello di lirismo delle proprie sequenze. O a Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders: che sapore avrebbe la prima sequenza del film — con le riprese aeree della città che si alternano alle scene di vita quotidiana degli abitanti accompagnate dai loro pensieri, a tratti sconnessi e surreali a tratti vividi e concreti — senza l’influsso suggestivo di quelle parole scritte dal premio Nobel alla letteratura Peter Handke? 


Copia originale si presenta come un esempio canonico dello storico rincorrersi tra parola e immagine. Inizialmente basato su un libro di successo da cui trae ispirazione, il film ripercorre il sentiero che ha portato il cinema ad emanciparsi dalla letteratura. E lo fa seguendo l’arco narrativo di Lee Israel che, prigioniera della sua bassa autostima, supera la paura di esprimere il proprio talento sganciandosi dal genere biografico per intraprendere la via truffaldina, ma di successo, dei suoi falsi d’autore. Non era forse la stessa paura del cinema delle origini? Non era lo stesso timore che lo teneva legato al romanzo, la paura di non poter ambire ad essere una forma migliore di rappresentazione dell’uomo e della società? Di non essere in grado di approfondire la condizione umana con la semplice manipolazione di immagini e suoni?

Il film, una volta distanziatosi dalla verbalità del libro, inizia a vivere di gesti, di primi piani espressivi e silenti, di incise sequenze di montaggio. E come il cinema si è affrancato dalla letteratura senza perdere quel legame con la parola, con il testo scritto, così anche Copia originale si emancipa dalla biografia di Lee Israel senza perdere il legame con il libro e con l’ingegno creativo della sua stessa autrice, una scrittrice capace non solo di scrivere un romanzo di successo ma di infondere il suo talento letterario in quelle copie (non) originali da cui tutto ha preso vita.

Commenti