Il discorso del re
Come le parole si fanno immagini, nella storia di un re che cerca la sua voce e nella propaganda che ha affrontato.
Il cielo plumbeo londinese avvolge l’Empire Stadium di Wembley. Gli spalti sono gremiti e il principe Alberto di York, secondogenito di re Giorgio V, è chiamato a tenere il discorso di chiusura della British Empire Exhibition, prestigiosa vetrina di beni e prodotti dei paesi dell’Impero a cui ben cinquantotto colonie e domini britannici hanno preso parte rendendola la più grande esibizione mai allestita al mondo fino ad allora, fino a quel freddo ottobre del 1925. Il discorso sarà trasmesso alla radio e raggiungerà le case del popolo britannico, così come nella cerimonia d’inaugurazione anche sua Maestà il Re Giorgio V aveva fatto, rivolgendosi ai suoi sudditi per la prima volta tramite l’etere.
A separare il principe Alberto dalla folla che lo attende, però, non vi è solo la breve serie di gradini che lo condurranno al palco della tribuna, ma anche il ben più ostile microfono che agli occhi di “Bertie” – così lo chiamano affettuosamente i familiari – si impone come un ostacolo insormontabile da superare. Tutti in piedi, la luce rossa lampeggia tre volte. Il nitrito di un cavallo rompe per pochi attimi il silenzio sul campo di gioco, poi un balbettio che il microfono propaga tra gli spalti senza pietà, così come il restante eco di parole rimaste in gran parte strozzate in gola.
È l’incipit del pluripremiato film di Tom Hooper Il discorso del re – quattro premi Oscar nel 2011 su dodici candidature –, ispirato alla storia vera di “sua altezza il principe Alberto di York”, futuro re Giorgio VI. Timido e riservato, fratello nell’ombra del ben più irrequieto Edoardo che abdica per ragioni amorose, Alberto si trova da un giorno all’altro a sedere sul trono d’Inghilterra, alle soglie dell’ingresso del Regno Unito nella Seconda guerra mondiale.
La balbuzie di Bertie
Bertie è affetto da una grave forma di balbuzie che continua a tormentarlo impedendogli di parlare agevolmente in pubblico. Si affida così alle cure di Lionel Logue, logopedista lontano dai metodi convenzionali e dai protocolli di palazzo che punta fin da subito a fargli ritrovare fiducia in se stesso, superando i fantasmi dell’infanzia: un’educazione rigida che lo aveva costretto a scrivere con la mano destra nonostante fosse mancino, problemi cronici allo stomaco e persino alle ginocchia, per cui gli era stato imposto di portare delle stecche correttive.
Sono gli anni del successo della radio, che diventa sempre di più un efficace e indispensabile strumento di comunicazione e di persuasione. Il microfono è dunque un oggetto con cui Bertie, suo malgrado, dovrà rapportarsi, trovando una voce da offrirgli; un oggetto respingente e alieno su cui la macchina da presa indugia sin nelle primissime immagini, presentandolo come il vero antagonista. Ma laddove la parola del film esita, nelle forme del balbettio di Bertie, le immagini sembrano correrle in soccorso per raccontarci i silenzi (in beffa al titolo), lo stato d’animo e l’imbarazzo del protagonista, la cui voce trema soprattutto nel proferire la parola king, re.
Del resto, le immagini rappresentano le vere parole dei film sin dalle origini del cinema. L’avvento del sonoro ne ha arricchito e completato il potere espressivo senza togliere nulla a quell’intima essenza di dire con le immagini, un punto fermo per il quale il silenzio cinematografico non costituisce affatto assenza di parola. Identificandosi col percorso del suo protagonista, però, Il discorso del re si proietta idealmente verso una dinamica inversa per cui è la parola a dover diventare immagine. La parola che il duca di York deve trovare, infatti, è specificamente deputata a ricostruire l’immagine viva di un re che una nazione pretende e di cui ha bisogno.
A partire dalla ricerca della (sua) voce, Bertie cerca di costruire l’immagine di sé che egli stesso ha smarrito, che possa parlare al suo popolo e al contempo in nome di esso, guidandolo e confortandolo nella sfida più ardua contro la Germania nazista. «Sono il centro di ogni autorità. Perché? Perché la nazione crede che quando parlo, parlo per lei. Ma non so parlare» – confessa impaurito a Lionel poco prima del suo discorso radiofonico più importante, quello che dà il titolo al film: The King’s Speech.
La voce del Führer e la voce del re
L’inglese speech sembra rinviare volontariamente al più complesso concetto greco di logos e al suo ventaglio di significati che include il discorso, la parola, il ragionamento e il pensiero. Secondo Aristotele, il logos (seguito da ethos e pathos) è l’elemento determinante ai fini della persuasione, l’arte di indurre le persone a compiere determinate azioni che normalmente non compirebbero. Lo sa bene Hitler, maestro nell’utilizzo della parola e dei mezzi di diffusione di massa che fungeranno da strumento di propaganda e da esercizio del potere in tutti i regimi totalitari. Il Führer conosce l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, conosce pertanto l’arte di governare.
Il fondamento di quest’arte risiede proprio nell’uso della parola, che sprigiona ogni suo potere legato all’immagine che suscita nell’altro. Hitler, Mussolini e Stalin seppero soggiogare le masse educandole tramite la radio, la stampa e il cinema e attraverso il controllo della produzione e della censura. In Germania, per esempio, la talentuosa regista Leni Riefenstahl, esaltando la personalità e le abilità oratorie del Führer, realizzò diversi film di propaganda (Il trionfo della volontà su tutti) utilizzando tecniche e punti di vista originali – da buche scavate sotto i podi, elevatori, dirigibili e aerei – che avrebbero donato imponenza e spettacolarità, tanto alla figura di Hitler quanto a quella delle folle che pendevano dalle sue labbra.
«Papà, cosa dice?», chiede a Bertie la piccola Elizabeth – la futura regina Elisabetta II, attualmente in carica – durante la proiezione di una pellicola che mostra Hitler parlare davanti a un “pubblico ammaliato”, nelle immagini immediatamente successive a quelle dell’incoronazione del padre; «Non lo so, ma sembra che lo dica piuttosto bene», le risponde, preoccupato e al contempo sedotto, re Giorgio VI.
Il re non ha più vie d’uscita, anch’egli dovrà affrontare il suo popolo, nascosto all’ombra di un microfono che porterà la voce del re nelle case di tutti. Lionel, eccentrico, provocatorio e irriverente, lo spinge a sciogliersi, ad abbandonarsi ai meandri della parola, anche nelle sue sfumature più colorite e sboccate. «Ascoltatemi», dice nervosamente il re durante la “preparazione” alla temuta cerimonia di incoronazione nell’abbazia di Westminster; «Ascoltarvi? Per quale diritto?», controbatte Lionel, sfacciatamente seduto sul trono reale; «Per diritto divino, se dovete. Sono il vostro re!» – «No, non è vero. Me l’avete detto voi stesso. Avete detto che non volevate. Perché dovrei sprecare il mio tempo ad ascoltarvi?» – «Perché ho il diritto ad essere sentito! Io ho una voce!».
Gli “alunni” della lingua
Nel 1937 Lionel Logue venne insignito del titolo di membro dell’Ordine reale vittoriano, poi elevato a commendatore nel 1944, un grande onore da parte di un re riconoscente che rese Logue un componente dell’unico ordine di cavalleria che ricompensa specificamente i servizi personali resi al monarca. Ma quei titoli non erano che il riflesso opaco di un’amicizia vera e profonda, consolidata negli anni e rimasta tale per tutta la vita. Le testimonianze che la raccontano, lasciate in eredità ai familiari di Logue, sono state raccolte dal nipote Mark nel libro scritto con Peter Conradi Il discorso del re. Come un uomo salvò la monarchia britannica.
Proprio grazie all’archivio di famiglia, che ha costituito la principale fonte ispiratrice per la scrittura del film, si è venuti a conoscenza di quello che fu un metodo innovativo, ispirato alla Scienza Cristiana, che Logue elaborò seguendo un approccio spirituale alla guarigione in grado di sradicare la paura dei suoi “alunni” – così preferiva chiamare i pazienti. Il passato come attore e esperto in dizione gli permise di entrare in contatto con persone balbuzienti o affette da disturbi linguistici, incontri che si rivelarono prolifici e grazie ai quali divenne un vero e proprio terapeuta del linguaggio. Nella prima guerra mondiale aveva trattato i soldati di ritorno afflitti da impedimenti linguistici causati dagli shock da granata, utilizzando umorismo, pazienza e «simpatia sovrumana».
Con questi stessi strumenti Lionel cura anche Bertie, accompagnandolo fino al discorso più importante il 3 settembre del 1939: l’annuncio del re alla nazione della dichiarazione di guerra alla Germania. E da lì in poi ai successivi discorsi radiofonici attraverso i quali il re saprà conquistarsi la stima e l’affetto dei suoi sudditi, tenendo sempre alto il loro morale. Il balbettio pian piano sfumerà, trasformandosi in voce, una voce in grado di costruire l’immagine autorevole di un sovrano che sarà il simbolo della resistenza nazionale. Ben oltre i confini cinematografici del film, la parola di Giorgio VI, lenta, misurata, accorta e consolatoria, sarà la cifra del regno sapiente di un buon re.
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