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Le lettere dello Zodiaco

Come crittografia e calligrafia diventano un secondo volto e si intrecciano in Zodiac, film di Fincher e una delle più celebri storie di serial killer.

Il 1° agosto 1969 Carol Fisher, segretaria del San Francisco Chronicle, interrompe una riunione di redazione del quotidiano. Una lettera è arriva sulla sua scrivania. «You have to see this», dice Carol porgendo il foglio al caporedattore Templeton Peck. L’autore della lettera, indirizzata all’editore del giornale, rivendica gli omicidi di una giovane coppia al Lago Herman nel Natale del 1968 e di una ragazza a Vallejo il 4 luglio del 1969, raccontando particolari di cui soltanto l’assassino può essere a conoscenza. Oltre al testo, la busta include la prima parte di un messaggio cifrato. «Le altre due parti del messaggio», legge ad alta voce Peck agli altri redattori, «sono state inviate ai direttori del Vallejo Times Herald e del San Francisco Examiner. Voglio che lei pubblichi il messaggio cifrato in prima pagina: nel messaggio è contenuta la mia identità. Se non lo pubblica entro il pomeriggio di venerdì 1° agosto 1969 io darò il via ad una carneficina spaventosa venerdì notte». Alla fine della lettera non c’è firma, c’è solo un simbolo: un cerchio sbarrato al centro da una croce. Somiglia al quadrante di un orologio, o a un mirino.

Alfabeto greco, codice Morse, alfabeto semaforico, simboli meteo, segni astrologici. Robert Graysmith, vignettista del Chronicle, ricopia velocemente il messaggio cifrato sul proprio quaderno. «Venti dollari a chi decifra il nome dello psicopatico», dice il reporter Paul Avery uscendo dalla sala riunioni. «Non ci dirà il suo nome», gli risponde Robert, sicuro che nel messaggio l’assassino non svelerà la sua identità. Le lettere vengono pubblicate da tutti e tre i giornali e finiscono sul tavolo di Donald e Bettye Harden, un insegnante di storia e sua moglie. È la coppia di Salinas, California, a decifrare 390 dei 408 simboli del codice. Tutti tranne gli ultimi diciotto, diciotto lettere di una presunta firma – EBEORIETEMETHHPITI – incomprensibile e mai svelata.

Mi piace uccidere le persone perché è molto divertente. È molto più divertente che uccidere animali selvatici nella foresta perché l’uomo è l’animale più pericoloso di tutti. Uccidere è l’esperienza più eccitante. È addirittura meglio di quando vieni con una ragazza, ma la cosa più bella è che il giorno che morirò rinascerò in paradiso e tutti quelli che ho ucciso diventeranno miei schiavi. Non vi dirò il mio nome perché cerchereste di rallentare o di fermare la mia raccolta di schiavi per l’aldilà.

Un messaggio inquietante, ma nessuna identità. Aveva ragione Graysmith. Il 4 agosto 1969 il Chronicle riceve una seconda lettera. L’assassino rivela altri dettagli sugli omicidi, incluso il fatto di aver utilizzato una torcia stretta alla pistola con del nastro adesivo per sparare nel buio alla coppia nell’auto di Vallejo. Questa volta, inoltre, l’assassino si dà un nome. Dear Editor, This is the Zodiac speaking. Caro Editore, qui è Zodiac che parla.

Decifrare un’identità

Comincia così, con due lettere e un messaggio cifrato, la storia di uno degli assassini seriali più famosi d’America. Le vicende del killer dello Zodiaco, a cui la polizia di San Francisco darà la caccia per tutti gli anni Settanta in un susseguirsi costante di lettere, codici e omicidi, saranno raccontate proprio da Robert Graysmith nel libro Zodiac, pubblicato nel 1986 e alla base dell’omonimo film di David Fincher uscito ventuno anni dopo.

Il fulcro della narrazione è il rapporto morboso e inquietante tra l’assassino, la stampa e la polizia, i tre poli da cui muove la ricostruzione di Fincher: le azioni del misterioso killer, gli articoli di Paul Avery e le speculazioni di Robert Graysmith, le indagini dei detective Dave Toschi e Bill Armstrong. Come nella realtà, tutto parte dal contenuto di quella busta inviata alla redazione del San Francisco Chronicle nell’agosto del 1969.

«Le lettere di Zodiac per me erano il gancio più importante nel film», dice Fincher nel commento audio di Zodiac, «di certo il gancio più importante per me da ragazzo: l’idea che qualcuno ci stesse offrendo una finestra sulle forme della propria psiche». Sono le lettere, infatti, e non sono soltanto i messaggi cifrati, ad essere oggetto di scrupolosa indagine degli investigatori e di Sherwood Morrill, l’esperto di calligrafia del dipartimento di polizia di San Francisco incaricato dei confronti grafologici. Lettere con imprecisioni, simboli, errori ortograficiChristmass con due esse, idenity senza t.

Tutta la ricerca dell’identità dell’assassino passa attraverso la decrittazione del linguaggio utilizzato nelle lettere che il killer dello Zodiaco invia alla polizia – e che i giornali pubblicano nella speranza di scongiurare le minacce di attentati –, un alfabeto che deve essere interpretato per arrivare alla verità. Fincher dissemina parole e simboli per tutto il film: le lettere inviate ai giornali, gli articoli stampati, i titoli di testa che si tramutano nel cifrario di Zodiac, i detective che camminano nel commissariato attraversando visivamente le parole dell’assassino, mostrate in sovraimpressione. La domanda da cui passa la ricerca della verità, in Zodiac, non è tanto chi ha commesso quegli omicidi ma piuttosto chi ha scritto quelle lettere.

«Credo che la ragione per cui si parla ancora di Zodiac, il perché in un certo senso ancora ci perseguita, sono le lettere e non i crimini. I crimini in sé sono piuttosto semplici e per gli standard dei serial killer contemporanei non così orribili o grotteschi, ma le lettere sono la chiave», dice ancora Fincher. Attraverso le lettere, l’assassino contemporaneamente rivela e nasconde la propria identità, esibendo se stesso senza mai mostrarsi. Sullo schermo, il regista statunitense rappresenta questo mascheramento attraverso un utilizzo particolare della luce.

Ogni volta che il killer compare il suo volto è nell’oscurità, nascosto dalla notte o dalle ombre che lo circondano, appena sfiorato dalla luce dei lampioni. La fotografia del film cifra il volto di Zodiac, lo nasconde agli occhi dello spettatore per restituire la sua inconoscibilità, la sua distanza da una società di cui non segue le regole. Di lui vediamo il mento, una guancia, il riflesso sulle lenti degli occhiali. Riusciamo a leggerlo, come le sue lettere, riusciamo a capire le sue intenzioni, ma mai a identificarlo.

Se l’agire del killer dello Zodiaco rispecchia il modo in cui scrive le sue lettere – impreciso, scorretto, a volte maldestro eppure sempre inquietante, pericoloso al punto di minacciare un attacco bomba ad uno scuolabus mandando nel panico l’intera San Francisco – così alla grafia delle lettere corrisponde la fotografia del film, una scrittura con la luce che incide la sagoma del corpo e i contorni del volto dell’assassino, lasciandolo sempre nell’oscurità.

Chi è Zodiac?

11 ottobre 1969. Le fondamenta della Transamerica Pyramid in costruzione sono illuminate dalla luce notturna del cantiere. Alla radio, una serie di ascoltatori chiamano la stazione per commentare gli omicidi e le minacce di Zodiac, mentre un taxi sta attraversando le strade di San Francisco. All’incrocio tra Washington e Cherry il tassista rallenta, ferma la macchina e blocca il tassametro. È un po’ stempiato, sulla cinquantina, baffi, occhiali e una camicia a righe, alle sue spalle un uomo corpulento il cui volto è al buio, nascosto dall’ombra del tettuccio. All’improvviso, l’uomo afferra l’autista per una spalla, gli punta la pistola alla nuca e spara.

Qui è Zodiac che parla.
Sono l’autore dell’omicidio del tassista all’angolo tra Washington St + Maple St ieri notte, per provarlo ecco un pezzo insanguinato della sua camicia. Sono lo stesso uomo che ha ucciso le persone nell’area di North Bay.

La polizia di S.F. avrebbe potuto catturarmi ieri notte se avessero perquisito il parco a dovere in vece di fare a gara con le loro motociclette per vedere chi faceva più rumore. Gli autisti avrebbero dovuto soltanto parcheggiare le proprie auto aspettando tranquillamente che io uscissi dal riparo.

Rappresentando l’ingannevole linguaggio epistolare attraverso il linguaggio cinematografico, Fincher sceglie di mostrarci cosa fa l’assassino e mai chi è. Non a caso fa interpretare Zodiac ad attori sempre diversi – la stessa tecnica che aveva usato Bryan Singer per mettere in scena l’oscuro antagonista Keyser Söze nel thriller I soliti sospetti – nel tentativo di far vivere allo spettatore lo smarrimento degli investigatori, che non hanno nessun riferimento per determinare l’identità dell’assassino. Nessun riferimento oltre alla scrittura.

Per tutti i sospettati nell’indagine la prova decisiva è sempre la perizia grafologica: la ricorrenza degli errori ortografici, le somiglianze tra le r minuscole, il numero di segni necessari per scrivere le k di kill e killer. «Ad un certo punto della nostra vita scegliamo come costruire fisicamente ogni lettera», spiega a Graysmith il perito Morrill. «Quando questo si è fissato nel cervello, la calligrafia può anche cambiare negli anni, ma il movimento rimane invariato». Ciò che sembra dire il film è che la scrittura definisce la nostra identità in maniera molto più marcata di quanto possiamo pensare. Non è soltanto cosa scriviamo a definirci – i temi, le frasi, i concetti – ma come lo scriviamo. Lo spazio tra le parole, la decisione del tratto, la correttezza dell’ortografia, e ancora il tipo di incisione sul foglio, il numero di tratti che ci servono per tracciare una lettera su carta.

I due volti dell’assassino

La ricerca del colpevole, nel film, si muove su due binari: da un lato le testimonianze, gli indizi, l’identikit dell’assassino, dall’altra il tentativo di ricondurre la grafia di ogni indiziato a quella dell’autore delle lettere. Sono due linee parallele, che incrociandosi potrebbero dare il nome dell’assassino, e invece continuano dritte, senza toccarsi mai. In un certo senso il film mette in scena due colpevoli, due serial killer distinti, uno che compie i delitti e un altro che scrive le lettere. E tutti e due sono reali. Per questo durante l’interrogatorio al loro principale sospettato, Arthur Leigh Allen, ad allertare i detective Toschi e Armstrong è l’orologio di marca Zodiac con un mirino al centro del quadrante, ma a convincerli davvero sono il mispelling dei biglietti d’auguri che scrive Christmass con due esse – e il suo ambidestrismo, che gli permetterebbe di redigere le lettere con una mano diversa, falsando la prova calligrafica.

Toschi e Armstrong sono convinti di aver trovato il punto di incontro tra le linee. Leigh, ambidestro, è una figura sufficientemente complessa da incarnare entrambi i colpevoli: la pistola nella mano destra, la penna nella sinistra. Neanche nel suo caso, però, c’è un riscontro tra le prove. Lo conferma il Capitano Marty Lee ai due detective dopo aver ricevuto le risposte dell’ennesima perizia.

«No»
«E la calligrafia?»
«La balistica non corrisponde, le impronte non corrispondono, la scrittura non corrisponde»
«Per entrambe le mani, giusto? Perché ora abbiamo campioni di scrittura di entrambe le mani»
«E nessuna delle due corrisponde»

In una ragnatela di vicoli ciechi, a trent’anni di distanza dai fatti reali, Zodiac può sostenere la colpevolezza di Leigh, ma non può provarla perché «the handwriting doesn’t match». E lo stesso vale per gli altri indiziati. Anno dopo anno, gli omicidi e poi le lettere si fanno più rade. Grafia dopo grafia, i nomi dei sospettati si moltiplicano senza trovare un riscontro calligrafico definitivo. Zodiac diventa una storia di ieri, un caso senza soluzione. Ci sono solo congetture, prove circostanziali, niente di concreto che possa collegare i sospettati ai crimini e, soprattutto, alle lettere.

Nel raccontare la storia del killer dello Zodiaco, il film non cede al manicheismo di certo cinema che impone la propria visione sulla realtà, e pur prendendo posizione sceglie di non mostrare, neanche nel finale, il volto del principale sospettato all’opera durante gli omicidi. Non c’è una rivelazione della sua identità, uno svelamento del suo volto nascosto – come invece avveniva, in una dimensione di finzione, nel montage finale de I soliti sospetti – ma la consapevolezza che la verità non può essere svelata, che questi due colpevoli rimarranno per sempre separati, che le linee non si incontreranno mai. Arthur Leigh Allen, Rick Marshall, Matthew Vaughn. Non sappiamo qual è la vera identità dell’assassino, sappiamo soltanto che Zodiac è colui che ha scritto quelle lettere.

Alla fine, quando il 1° agosto 1969 scriveva che nel messaggio era contenuta la sua identità, forse Zodiac stava dicendo il vero. Forse l’assassino non si trovava sulle strade di San Francisco, ma nei simboli incisi sul foglio, nelle lettere tracciate sulla carta, nelle k fatte di due o di tre linee, nelle r minuscole; forse si trovava in tutti quei tratti bidimensionali, scritti nero su bianco, che presentano il nostro io al mondo, esplicitano e definiscono i nostri tratti interiori, dicono a tutti chi siamo veramente e al contempo danno forma ai lineamenti di un secondo volto, più o meno aderente al volto che portiamo nella realtà. O forse davvero, ancora oggi, l’identità di Zodiac si nasconde in quella firma incomprensibile, in quelle diciotto lettere che nessuno è mai riuscito a decifrare.

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