Parlare una lingua aliena
Il dialogo fantascientifico tra uomini e alieni nel film ‘Arrival’ di Denis Villeneuve
Nell’intensa tradizione letteraria e cinematografica fantascientifica, in cui scienza e fantasia si fondono in un’unica anima che vive primariamente di spettacolarità, la lingua e il linguaggio hanno un ruolo chiave. Dall’universo di Star Trek, in cui una razza extraterrestre parla il Klingon, una lingua artificiale assai evoluta e interamente creata a tavolino, a quello di Incontri ravvicinati del terzo tipo, che tingendosi di colori e melodie apre agli scienziati la possibilità di comunicare con gli ospiti attraverso le note musicali, accade frequentemente che le culture aliene siano dotate di una propria lingua più o meno complessa da decifrare e comprendere. In Contact, per esempio, gli alieni del sistema stellare Vega inviano agli umani le istruzioni per costruire una macchina in grado di raggiungerli servendosi della matematica, unico linguaggio universale possibile. Ben lontano da quest’ultimo assunto teorico, il regista canadese Denis Villeneuve eleva, col suo Arrival, le comuni regole del naturale parlarsi e intendersi umano a una sorta di universalità linguistica pura, trasposta nell’immagine di uno spazio bianco sovrannaturale in cui comprendere pienamente la parola dell’Altro concede il dono di infrangere la linearità del tempo.
In Arrival le potenze politiche di tutto il mondo vengono mobilitate dall’improvvisa invasione di dodici enormi monoliti, sospesi per aria in differenti paesi del pianeta. L’incursione umana nelle astronavi, strutture dalla particolarissima forma ovale entro cui verticalità e orizzontalità si mescolano sfidando le leggi della gravità, è già avvenuta e ha reso possibile una prima conoscenza degli extraterrestri, eptapodi senza volto immersi in una fitta nube di fumo bianca, che emettono solo frastuoni incomprensibili, indecifrabili e segreti come ancora restano le intenzioni del loro arrivo. Per questo motivo l’esercito degli Stati Uniti ingaggia la linguista di fama internazionale Louise Banks e il fisico teorico Ian Donnelly, con l’assoluta priorità di scoprire quale sia lo scopo degli alieni sulla Terra e se questo possa rivelarsi una minaccia per l’umanità.
I due studiosi, che ben presto lavoreranno sinergicamente nonostante un contesto politico-militare spesso ostico, partono da due assunti ben differenti. Per Louise, come recita la prefazione del suo ultimo libro, «la lingua è il fondamento della civiltà, è il collante che tiene insieme un popolo, è la prima arma che si sfodera in un conflitto»; per Ian, invece, il fondamento della civiltà è la scienza e su questo assunto si basa ogni sua intenzione comunicativa in vista del grande incontro con gli eptapodi: «magari possiamo salutarli fornendo una serie di sequenze binarie», dice lo scienziato in relazione alla sfilza di domande che ha preparato per loro. Come Louise avrà modo di dimostrare, però, prima di «sbattere in faccia agli alieni dei problemi matematici» serve riuscire a parlare con loro.
Le parole aliene
“Qual è il vostro scopo sulla Terra?”, questa è la domanda centrale da porre agli eptapodi. Stilare un vocabolario minimo è l’obiettivo primario, la base su cui improntare un dialogo per poter interpretare le risposte degli alieni e scoprire, interazione dopo interazione, se essi riescano a comprendere la grammatica della domanda e la natura di un’intenzione. Louise imbocca una strada discreta e amichevole, a caccia di una qualche forma di comunicazione visiva che possa scardinare le barriere delle regole del loro linguaggio, al momento racchiuse nella nube bianca che si erge contro gli umani come una lastra di vetro infrangibile. La donna scrive su una lavagna la parola HUMAN, quella parola che con semplicità e straordinaria potenza la definisce come animale linguistico; poi sussurra tremante: «I am human, what are you?».
I due eptapodi sembrano intuire il significato delle parole di Louise e da una sorta di mano che ha la sinuosità di un fiore irrompe un fumo nero che lentamente si stende sulla parete bianca luminosa, componendo una forma sferica adornata da degli elementi decorativi simili alle grazie della scrittura alfabetica. Il segno scritto, la parola degli alieni, è vivo e vive come un’anima nera che respira insieme al significato di cui è portatrice. Con un tocco delicato allora, Louise avvicina la sua mano sul vetro di fumo cercando un contatto con l’alieno che ricambia subito con lo stesso gesto, al grido di un gemito frastornante e impenetrabile. Poi chiude gli occhi e sorride: «questa sì che è una bella presentazione».
Il lavoro dei due studiosi inizia così a dare i primi frutti, approdando a poco a poco a un terreno di condivisione linguistica decifrabile, ma non immune al fraintendimento. Nella difficile interazione tra specie l’ambiguità salta fuori prepotentemente quando, in risposta alla cruciale domanda di Louise sulle intenzioni degli eptapodi sulla Terra, gli alieni restituiscono parole che vengono rielaborate in un enigmatico “offrire arma”. Alcune nazioni, impaurite da un messaggio che sembra risuonare come una minaccia, decidono di chiudere qualsiasi tipo di comunicazione preparandosi all’imminente attacco. I media alimentano il clima di terrore e anche alcuni soldati statunitensi, in preda al panico, decidono di agire installando una bomba all’interno dell’astronave-guscio. Ma quella parola, “arma”, aveva davvero un significato così univoco e inappellabile?
Il sistema del formicaio
Non occorre spingersi su territori alieni per esplorare la dimensione del fraintendimento linguistico. Essa si dischiude naturalmente all’interno dell’intrinseca complessità della relazione parola-significato, le cui variegate declinazioni non seguono certo criteri di linearità. Anche se, forse, ciascuno di noi coltiva un’idea per lo più semplicistica secondo cui intuitivamente immaginiamo che la parola significhi qualcosa (come se il significato fosse una sorta di etichetta da apporvi) e che dalla composizione dei significati delle parole si generi poi quello delle espressioni più complesse. Il problema è simile a quello del classico dilemma dell’uovo e della gallina: viene prima l’uovo o la gallina, la parola o l’enunciato? Posta in questi termini, la questione è viziata da un approccio che sembra seguire una logica temporale: in entrambi i casi, infatti, che sia il tutto a determinare le parti o che siano le parti a determinare il tutto, questo significherebbe “venir prima di”, temporalmente. In realtà, le parole non sono entità statiche; esse vivono nel macro-organismo vivente che è il linguaggio, governato da processi dinamici non lineari proprio come avviene in natura nella maggior parte dei sistemi biologici complessi.
Perché, ad esempio, una formica presa isolatamente gira a vuoto in maniera sgraziata e priva di senso, mentre un cospicuo insieme di formiche si muove all’unisono e costruisce ponti? Studi scientifici lo dimostrano, i formicai presentano caratteristiche complessive diverse e non riducibili a quelle delle singole formiche, che di per sé risultano invece cognitivamente ottuse. Il formicaio presenta dunque delle proprietà sistemiche, totalmente nuove; la sua intelligenza e la sua straordinaria organizzazione non sono né deducibili né generabili dalle caratteristiche delle singole formiche. L’operare di ognuna di loro si dota di senso solo ed esclusivamente nell’interazione con le altre all’interno del formicaio. È in una dimensione assolutamente analoga che la parola-formica germoglia, emette il suo primo gemito e respiro, assumendo la sua identità (il suo significato) all’interno di una realtà complessa di livello superiore: il contesto frasale in cui gli esseri umani generano senso, il contesto specifico della loro privilegiata forma di vita – utilizzando un’espressione del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein – che li definisce come animali linguistici.
Dentro il brutale segno grafico HUMAN scritto da Louise sulla lavagna vive tutto questo, vive l’unicità umana. L’attenzione teorica dalla logica del “prima” e del “dopo” si sposta così verso un più sofisticato gioco di relazioni dinamiche complesse proprie del nostro comunicare, si sposta sui processi, sugli intrecci di interazioni reciproche tra parti e tutto da cui emerge, come un magma pulsante, una realtà di volta in volta nuova e in continua trasformazione. La parola ha una sua atmosfera, costituita da quell’insieme di potenziali significati in evoluzione che essa può assumere nei vari contesti in cui occorre, un contesto fatto di relazioni linguistiche, circostanze ed esperienze passate: «tutto un mondo di dolore sta in queste parole. Come può stare in esse? Vi è connesso. Le parole sono come la ghianda da cui può nascere una quercia», dice il filosofo. Comprendere un linguaggio è come comprendere una frase musicale e, così come accade con le note musicali, le parole possono darci infinite sensazioni, sensazioni per le quali esse via via s’impongono nella nostra prassi linguistica come fossero dei volti noti e familiari.
L’arma del linguaggio
Louise e Ian si sono dunque mossi a caccia del “volto” della parola degli eptapodi. Chi sono, come comunicano? Gli intensi mesi di lavoro dei due studiosi svelano che i logogrammi alieni sono svincolati dal tempo. Come la loro astronave e i loro corpi, la loro lingua scritta non ha quindi una direzione in avanti o indietro – ha un’ortografia non lineare –, per cui si pone il quesito: è così che pensano? Sarebbe come il voler scrivere una frase con due mani a partire da entrambi i lati, per cui sarebbe necessario conoscere ogni parola da utilizzare, oltre all’esatto spazio occupato da essa. Ed è proprio questo il punto di svolta narrativa del film. Louise ha delle visioni della sua bambina, una bambina che però non conosce ancora.
Di fronte ai racconti confusi della donna, Ian si chiede se stia sognando nella lingua aliena, chiamando in causa le teorie del determinismo linguistico e l’ipotesi Sapir-Whorf secondo cui la lingua che parliamo determinerebbe il nostro modo di pensare: «la nostra analisi della natura segue linee tracciate dalle nostre lingue madri. Tutti gli osservatori non sono guidati dalle stesse prove fisiche verso la stessa immagine dell’universo, a meno che i loro bagagli linguistici siano simili, o possano essere in qualche modo calibrati», scrive Benjamin Lee Whorf in Language, Thought and Reality. In questa prospettiva, la diversità delle lingue non si declina tramite una diversità di suono e di segni bensì tramite differenti modi di “guardare il mondo”. Anche se non lo comprende ancora appieno, Louise sta dunque sognando nella “loro lingua” che possiede in purezza la non-linearità del tempo.
Più Louise comprende quel linguaggio più riesce a vedere nel futuro, un futuro che le si manifesta con dei flash-forward della figlia che avrà con Ian: «un tempo pensavo che questo fosse l’inizio della tua storia, siamo così limitati dal tempo e dal suo ordine, ma ora non so più se credo che esista un inizio e una fine. Ci sono giorni che determinano la tua storia al di là della tua vita, come il giorno in cui arrivarono», afferma all’inizio del film rivolgendosi idealmente alla figlia. È vero dunque, Louise ha un’arma perché, come le dice l’eptapodo, «tutto ha inizio con le armi». Non si tratta però di armi di natura bellica, quelle che le potenze politiche mondiali temono, accecate da un mero equivoco linguistico e incapaci di ascoltarsi e di ascoltare – né, sul piano formale, delle armi che caratterizzano il genere fantascientifico.
L’arma in questo caso prende le sembianze mostruose e al contempo aggraziate del linguaggio degli eptapodi concesso in dono agli uomini, animali privilegiati immersi nella nube bianca della parola, che vive e respira come l’elegante segno grafico alieno. In questo senso, allora, la parola aliena sembra elevare a uno stato puro e ideale, svincolato dalla linearità, le caratteristiche e le potenzialità intrinseche della parola umana. Così, parola e linguaggio si autoaffermano limpidamente come arma, quell’arma devastante in grado di generare senso che concede all’uomo la possibilità di qualunque intesa: «il linguaggio esercita un potere occulto, come la luna sulle maree», scriveva la scrittrice e sceneggiatrice Rita Mae Brown. La parola e il suo utilizzo, come suggerivano le sembianze della grafia aliena, apre un varco oltre il quale abita la scoperta più segreta, di fronte alla quale anche lo scetticismo di Ian non può che piegarsi: il linguaggio vive e respira e s’impone come porta di ogni sapere.
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