Un mondo senza parole
Come il film ‘A Quiet Place’ di John Krasinski esplora, nella fantascienza, un mondo in cui è vitale non parlare.
Giorno 89. Un semaforo spento giace tra le erbacce, una bacheca riporta una serie di fotografie di persone scomparse. In un piccolo supermercato abbandonato non c’è più elettricità, gli scaffali sono vuoti, saccheggiati dalle mani dell’uomo. Una madre cerca delle medicine, un antibiotico per il figlio malato. Non emette alcun suono: non fa rumore nel muoversi, nel rovistare, né nel far inghiottire il farmaco al ragazzo. Perché? Nel mondo di A Quiet Place una razza aliena predatoria ha invaso il pianeta Terra in tempi e modi imprecisati. Una razza cieca che in mancanza della vista ha sviluppato un sistema uditivo raffinato, ultrasensibile agli stimoli sonori del mondo esterno e utile per scovare le proprie prede: gli umani. La parola è bandita da questo scenario post-apocalittico. Tutti in silenzio, altrimenti si rischia di morire.
Come sarebbe il mondo se non potessimo parlare? Come faremmo a lavorare, ad esprimere i nostri sentimenti? È quello che si chiede A Quiet Place, film di fantascienza orrorifica dove la parola assume rilevanza fondamentale. La famiglia al centro della storia si barcamena per sopravvivere, tra sistemi di lampadine rosse che si illuminano in caso di pericolo intorno alla fattoria in cui si sono trincerati e vari accorgimenti che sopperiscono alle rumorose attività della vita quotidiana. I piatti sono vietati, al loro posto si usano delle larghe foglie per contenere il cibo, e così le posate, i bicchieri, per non parlare della tv e della radio. Caccia, pesca e agricoltura sono tornate a essere attività di sussistenza compiute in prima persona, perché procacciarsi da soli il cibo vuol dire continuare a vivere. È pericoloso parlare, lo si può fare solo vicino al fiume, o più in generale quando un rumore più forte, come il rumore dello scorrere dell’acqua, sovrasta i suoni delle voci umane. È pericoloso camminare, lo si fa scalzi su dei tracciati di sabbia per evitare che rametti e foglie pestate scricchiolino pericolosamente sotto i piedi. Persino mettere al mondo un figlio mette a rischio la sopravvivenza della specie, perché i gemiti di una vita che nasce attirerebbero le creature aliene.
A Quiet Place mette in risalto il fondamento verbale della comunicazione umana, un’abilità cui la comunicazione non-verbale – fatta di sguardi e di gesti – non può sopperire. Tutti i membri del nucleo familiare padroneggiano la lingua dei segni per via della figlia sordomuta e questa abilità ha consentito a tutti di mantenere un certo livello di comunicazione. Ma tra loro si percepisce forte l’assenza della lingua madre, parlata, l’incapacità di esprimersi fino in fondo e il dolore, persino, di chi vorrebbe dire di più, degli occhi che vorrebbero parlare. Il film sembra dimostrare come la parola sia l’unico strumento capace di approfondire il senso di un discorso, di articolare concetti, l’unico strumento in grado di cementare e mantenere saldi i rapporti tra i membri di una famiglia, che in un universo solitario si fa metafora di comunità, società e specie. Più di ogni altro mezzo di comunicazione. Tuttavia, in un mondo senza parole, proprio la parola, la base della capacità dell’uomo di dare forma al mondo, la sua forza, diventa la debolezza più grande.
Fuggire dal rumore
Dei piedi nudi e sporchi di terra camminano su una linea di sabbia bianca. I piedi di un padre, una madre e dei tre figli – uno di loro, il figlio malato, è in braccio all’uomo. Sono tutti in fila indiana. Improvvisamente si fermano, il padre posa a terra il figlio e comincia a correre verso l’ultimo della fila, corre come un pazzo. La madre si porta le mani alla bocca per non gridare. La figlia sordomuta non sente e non capisce cosa sta accadendo. Quando il padre le passa accanto, vede suo fratello con un giocattolo in mano, il giocattolo che lei gli ha appena regalato: uno shuttle in miniatura completo di lucine e suoni sfavillanti. È una corsa contro il tempo. La creatura viaggia spedita. Il padre anche, non vuole sopravvivere a suo figlio, ma la natura umana questa volta ha la peggio. Il ragazzo solleva lo shuttle in aria, lo sta facendo volare mentre viene falciato dalle zampe affilate della creatura.
In questa lotta per la sopravvivenza sarà la figlia sordomuta a trovare la chiave per sconfiggere gli alieni, amplificando le frequenze statiche del proprio apparecchio acustico tramite un microfono collegato a degli altoparlanti, nello scantinato della fattoria occupata. Lo stesso scantinato dove suo padre le ha costruito quell’apparecchio con i pezzi di un vecchio stereo. Come in un nastro di Moebius che si avvita su se stesso, il suono, ciò che uccide gli umani, diventa anche la loro salvezza, mentre la sensibilità dell’udito dei mostri si ritorce contro di loro. La figlia che aveva regalato a suo fratello il giocattolo che ne aveva causato la morte si riscatta quindi dal senso di colpa intuendo quanto determinate frequenze sonore facciano impazzire le creature aliene.
La tragedia del silenzio
A Quiet Place è una tragedia in senso classico che si muove con eleganza e disinvoltura nel recinto della fantascienza horror, non perdendo mai di vista il tema centrale della narrazione, anzi, declinandolo nei diversi rapporti tra i personaggi, per i quali l’impossibilità di parlare assurge al massimo grado nelle piccole cose della quotidianità familiare. Quando un marito e una moglie non possono più fare ciò che è alla base del rapporto: condividere le esperienze di vita. Quando un padre non può parlare con il proprio figlio per comunicargli la fiducia necessaria di un genitore, quella fiducia che lo renderà capace di affrontare il mondo e le avversità della vita. Quando una figlia non può disperarsi e chiedere perdono per i suoi errori, quando non può espiare la propria colpa per la morte di un fratello. Quando una madre non può piangere un figlio morto e non può nemmeno gridare durante il parto, quando si ritrova costretta a mettere il neonato in una cassa di legno, attaccato ad una bombola di ossigeno, per evitare che i suoi pianti mettano a rischio la sua vita.
Tra segni, gesti e sguardi, il fulcro del film è nel non detto, in quel non potersi esprimere che logora e uccide dentro, come le parole uccidono chi si azzarda a pronunciarle. È una condizione che riflette la tragedia dei protagonisti, spinti dalla necessità di comunicare tra loro, di mostrare i propri sentimenti gli uni agli altri, di essere famiglia, e pur tuttavia costretti al silenzio nell’impossibilità di parlarsi. Oltre al mostro da sconfiggere, il conflitto dei personaggi si manifesta interiormente nella loro alienazione emotiva, nella costrizione all’isolamento relazionale.
Per loro il silenzio è un castigo, ed è una prigione peggiore della condizione in cui gli alieni li hanno relegati. Non potersi scambiare pensieri, non poter avere un dialogo, non poter scherzare tra loro racconta come parlare non sia soltanto secca comunicazione, ma sottenda le dimensioni più intime nascoste in ciò che diciamo. La parola è dappertutto, in ogni sguardo, in ogni gesto d’affetto, in ogni sofferta emozione incondivisibile.
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