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Le lingue semitiche #1 — Una storia ebraica

Quali sono le lingue semitiche, e che caratteri hanno? Salpiamo alla scoperta di questa grande famiglia linguistica, sviluppatasi sull’altra sponda del Mediterraneo e così importante nella storia delle civiltà.

Quando affrontiamo le parole italiane derivate dalle lingue semitiche, nella maggior parte dei casi ci troviamo ad avere a che fare con l’arabo, l’ebraico e l’aramaico. Se individuare la differenza tra i primi due è piuttosto facile, complice anche una notevole difformità nella scrittura alfabetica, capire che cosa contraddistingue invece il secondo idioma dal terzo è un po’ più complesso.

Ma non finisce qui: le lingue semitiche sono state tantissime, nel tempo. La loro storia è affascinante e riflette le alterne vicende dei popoli che le hanno usate. Vale la pena, quindi, dedicare uno sguardo approfondito a questi idiomi, antichi e moderni, mettendone a fuoco caratteristiche e peculiarità, facendo conoscenza con un sistema linguistico che per noi, eredi degli indoeuropei, è forse un po’ astruso, ma che vive e prospera nelle bocche di milioni e milioni di parlanti.

L’ebraico di oggi…

Prendiamo un aereo con destinazione l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv: la lingua che si parlerà all’atterraggio si chiama ebraico, ma non è quella che si usava all’epoca di Gesù o con cui è stato composto il Talmud. Quando, il 14 maggio 1948, fu proclamato lo stato ebraico di Israele, giorno che il popolo palestinese ricorda come Nakba (cataclisma), una nuova nazione vide la luce. Una nazione composta da gente proveniente da tutte le zone d’Europa e del nord Africa, dagli shtetl russi ai vicoli di Essauria, una nazione i cui membri erano accomunati da una storia, una fede, una diaspora e una tragedia. Alcuni parlavano lo yiddish, altri i dialetti romanzo-giudaici, altri ancora usavano l’arabo. L’ebraico della Torah, in maniera succinta, apparteneva alla liturgia, allo studio delle Sacre Scritture e del Talmud. Che lingua avrebbero dunque parlato? La risposta era già pronta.

Sin da quando era nato il movimento sionista, appena dopo lo scandalo dell’affaire Dreyfus, un flusso costante e regolare di ebrei si era trasferito sulle sponde del Giordano, formando gli Yishuv, cioè i primi insediamenti che costituirono il ‘focolare ebraico in Palestina’. Immediatamente si era sentita l’urgenza di comunicare in una lingua che fosse simbolo di identità etnica e nazionale. In questo clima di rinascita nazionale israelitica, il giornalista ebreo di origine russa Eliezer Ben Yehuda decise di prendere l’antica lingua ebraica e darle una bella rinfrescata: in poche parole andò a sciacquar i panni nel Giordano (e noi italiani sappiamo bene come siano efficaci, questi bucati con acqua di fiume).

Grazie alla sua opera di rinnovamento lessicale, l’ebraico fu quasi subito ripreso come lingua orale, della comunicazione quotidiana: abbatté le mura delle sinagoghe e delle yeshivah (le scuole tradizionali) e si conquistò il suo posto nelle bocche dei parlanti. I neologismi necessari ad adattare l’antichissimo idioma alla vita quotidiana del XX secolo furono introdotti ispirandosi a parole arabe, di ceppo affine, e, in minor misura, a termini in yiddish. Era nato l’ebraico israeliano.

Quando Cavour, nel letto di morte, disse: ‘L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani’ pronunciò parole che, mutatis mutandis, si possono usare anche per il caso di Israele: la nazione era fatta, ora bisognava fare gli israeliani. La lingua fu un agente importante nel mettere il turbo a quel processo di consolidamento dell’identità nazionale che nei decenni successivi si articolò anche attraverso una controversa serie di conflitti e di drammatiche, tragiche misure prese nei confronti dei Palestinesi.

… e l’ebraico di ieri

Ma, alla fine, l’ebraico che Ben Yehuda recuperò e aggiornò… quale ebraico era? Sì, perché non ne è esistito uno solo. Andiamo con ordine. Dobbiamo partire dal popolo che utilizzò un alfabeto che divenne la base per quello greco, cioè i fenici. Per capire bene però questo nodo della storia, si deve tener presente una cosa importante: fenici è il nome che i greci diedero a questo popolo che si sviluppò sulle sponde orientali del Mediterraneo ed è anche il nome che la storiografia comune, di stampo classico, continua ad utilizzare per indicarli. La realtà etnografica della regione in cui i fenici prosperarono, che è definibile con il nome di ‘Terra di Canaan’, fu assai più complessa. Dire fenici, infatti, significa guardare alla materia da un punto di vista ellenistico e non ‘interno’ al grande cosmo semitico.

I fenici erano i cananei, e la Terra di Canaan corrisponde all’incirca all’attuale stato di Israele, ai territori palestinesi, al Libano, parte della Siria e parte della Giordania. L’influenza della loro lingua, che ebbe delle varianti all’interno della regione, fu tale che penetrò in profondità nella cultura di un popolo costiero non semitico ma indoeuropeo: i filistei. Ecco perché possiamo trovare nomi di divinità filistee che contengono elementi linguistici tipicamente semitici, come ad esempio il dio Ba’al zĕbūb, che sta dietro la parola Belzebù. Inoltre ci si spiega anche come nomi quali Asdrubale e Annibale siano poi stati largamente usati a Cartagine (colonia, appunto, fenicia).

Un dialetto molto fortunato

Di fatto, intorno al X secolo a.C., nella regione di Gerusalemme iniziò a formarsi un dialetto cananaico (fenicio) che ebbe un’enorme e imprevedibile fortuna storica. Era l’ebraico. Un semplice dialetto fenicio, per dirla ‘alla greca’. Qui, però, i conti non ci tornano: se l’ebraico era una lingua semitica cananea, e se nella Bibbia si parla spesso dei conflitti tra il popolo di Israele e i cananei, questo significa che gli ebrei che giunsero nella Terra di Canaan non parlavano l’ebraico?

In effetti sembra così. Ma, come spiega Ann E. Killebrew nel suo saggio ‘Biblical Peoples and Ethnicity: an archaeological study of Canaanites, Egyptians, Philistines, and Early Israel, 1300–1100 BCE’, alcune ricerche stanno mettendo tutto un po’ in crisi. Se si è creduto a lungo che gli ebrei non fossero nativi della Terra di Canaan, seguendo specialmente il racconto biblico (che tutti gli archeologi e storici, va da sé, sconsigliano di prendere alla lettera da un punto di vista storiografico), oggi si prende in esame anche l’ipotesi secondo cui i primi israeliti fossero anch’essi di origine cananea, nella fattispecie provenienti dai territori più orientali, quelli intorno al fiume Giordano, le zone più occidentali dell’attuale stato di Giordania. Che lingua parlavano? Probabilmente una qualche forma di aramaico.

Ebrei o samaritani?

L’aramaico, secondo gli accademici, soppiantò l’ebraico nel momento in cui gli ebrei furono deportati a Babilonia. Questo passaggio storico diede vita ad un’importante dicotomia linguistica e teologica all’interno dell’ebraismo: da una parte ci furono gli intellettuali ebrei che in cattività conservarono, o pretesero di conservare, il patrimonio culturale quale era al momento della loro deportazione, dall’altra ci furono coloro che poi passarono alla storia come samaritani, anch’essi convinti di essere i depositari della ‘vera verità’. Questa faccenda è stata già trattata brevemente nella parola ‘samaritano’:

quando gli ebrei furono deportati a Babilonia le loro terre furono occupate da pochi superstiti e da popolazioni pagane che abitavano le zone limitrofe, secondo un processo storico di assimilazione molto comune. La religione che queste popolazioni rimaste in terra di Canaan, più precisamente nella regione della Samaria (da cui il nome), iniziarono a professare era, a detta degli ebrei che tornarono dall’esilio in Babilionia, una sorta di eresia, un miscuglio sincretico che sfiorava l’idolatria. Ovviamente la campana dei Samaritani suonava un’altra musica: essi affermavano di aver preservato il vero culto del Signore, rivendicavano il patto stretto da Abramo con Dio ed accusavano gli ebrei giudaici di aver stravolto la vera fede mentre si trovavano a Babilionia.

Non fu solo una disputa teologica, giacché sottesa alla materia religiosa c’era anche la questione linguistica: di fatto, in assenza degli ebrei, in Terra di Canaan si era affermato l’aramaico, che era anche la lingua internazionale, una sorta di koinè del Vicino Oriente. Quando terminò l’esilio, l’ebraico rimase relegato ai testi sacri, alle discussioni dotte tra rabbini, arrugginendosi, perdendo col passare del tempo alcune caratteristiche, in breve, mutando. Con quell’ebraico lì, già ‘antico’, fu redatto in larga parte il Talmud (fatta eccezione per alcuni elementi), ed è noto come ebraico mishnaico, cioè della mishnà, parola ebraica che significa ‘ripetizione’, o anche ebraico tannaitico, dall’aramaico tanna, col medesimo significato. I samaritani, dal canto loro, continuarono a parlare il loro ebraico samaritano e a praticare la loro fede eterodossa, cosa che una piccola popolazione continua a fare tutt’oggi.

Il medioevo dell’ebraico

La tradizione dei testi sacri e del Talmud diede vita a differenti scuole presso cui la lingua si differenziò di pari passo con l’interpretazione teologica delle Scritture. Si possono individuare nel periodo alto-medievale (VII -VIII secolo d.C.) quattro scuole principali di tradizione orale: quella di Tiberiade, che si impose per motivi teologici sulle altre, quella babilonese, la samaritana e la palestinese. Gli studiosi sono in grado di affermare che l’ebraico medievale di Tiberiade era già diverso da quello delle Scritture confrontando le parole ebraiche che erano state precedentemente grecizzate e latinizzate nelle varie tradizioni della Bibbia con i termini contenuti nei testi tiberiensi.

L’ebraico tiberiense è, per farla breve, quello con cui fu redatto il testo masoretico delle Scritture, composto in un arco di tempo che va dal I secolo d.C. al X secolo d.C. Con la dicitura ‘testo masoretico’ ci si riferisce al testo della Tanakh, la Bibbia ebraica, che costituisce anche il primo testamento della Bibbia cristiana, con qualche differenza che non evisceremo in questa sede. Masoretico deriva dalla parola masorah, cioè tradizione.  Ciò ci fa capire l’importanza e la difficoltà del tramandare l’ebraico: uno dei noccioli della questione stava anche nella vocalizzazione della lingua, il cui scheletro consonantico da solo, senza specificazione vocalica, non poteva sorreggere la struttura morfologica.

Un’ulteriore problematica da tenere presente quando si parla di tradizione dell’ebraico è il fatto che, oltre alla precoce scomparsa della lingua parlata, vi fu in modo innegabile una subordinazione della lingua rispetto al testo. Come spiegano Giovanni Garbini e Olivier Durand nel loro testo fondamentale ‘Introduzione alle lingue semitiche’:

Quello che è stato trasmesso, dall’esilio babilonese in poi, non è un bagaglio di nozioni linguistiche, bensì un gruppo di testi sacri o quantomeno religiosamente rilevanti; la cosa importante non era conoscere la struttura linguistica di quei testi, ma il loro contenuto ideologico, sottoposto peraltro a continue sollecitazioni da parte delle diverse correnti dell’ebraismo. Di conseguenza, non è raro il caso che una certa forma linguistica, lessicale o anche morfologica sia la semplice conseguenza di una data interpretazione del testo, magari linguisticamente inesatta.

Le lingue dei ghetti

Contemporaneamente a questa evoluzione e opera di conservazione, durante la diaspora nei quattro angoli del mondo allora conosciuto, la nazione ebraica si divise e acquistò strumenti linguistici diversi a seconda del luogo in cui si insediò, parlando arabo, yiddish, i dialetti giudaici-italiani, il ladino, il greco, fondendo l’ebraico e l’aramaico con spagnolo, tedesco e italiano. Mentre nelle sinagoghe risuonavano preghiere antiche tramandate dalle generazioni che si succedevano, nelle case e nelle strade dei ghetti fiorivano lingue pratiche, atte a favorire i commerci, a redigere contratti e accordi economici.

La cosa importante da ricordare sui dialetti giudaico-italiani è il loro altissimo livello di arcaicità, così tipico delle comunità che subiscono in qualche modo un isolamento prolungato. Per gli ebrei questo isolamento consistette nella ghettizzazione a partire dal 1555. Ciò ha permesso una sorta di congelamento delle parlate giudaiche, cosicché quando si ha a che fare con un parlante di dialetto giudaico-romanesco, ad esempio, si ha un assaggio dell’antico romanesco parlato nella nostra magnifica capitale durante il XVI secolo.

La lingua di Gesù

Tutto molto bello, interessante e complicato, no? Ma se siete qui spinti dalla domanda ‘che lingua parlava Gesù?’, eccovi finalmente la risposta che cercavate: non era l’ebraico, ma l’aramaico. E se non ci siamo dilungati troppo in dissertazioni su questo idioma è perché la sua storia merita un articolo a parte, in quanto visse una vita lunga diversi millenni e godette di un certo prestigio internazionale nel Vicino Oriente per diverso tempo.

La storia della lingua ebraica è molto complessa, ed è evidente anche da un assaggio come questo: si tratta davvero di una materia immensa. Ma in fondo la cultura ebraica nella sua totalità è un dedalo affascinante di specificità e dettagli, in cui religione, tradizioni, storia, lingua, arti e letteratura si annodano stretti formando un arazzo preziosissimo di una bellezza struggente e commovente. Non si finisce mai di leggere ed imparare, ed è proprio il caso di ripeterselo, quando si tratta di ebraismo.


Bibliografia:

  • ‘Introduzione alle lingue semitiche’, Giovanni Garbini e Olivier Durand, ed. Paideia.
  • ‘Biblical Peoples and Ethnicity: an archaeological study of Canaanites, Egyptians, Philistines, and Early Israel, 1300–1100 BCE’, Ann E. Killebrew, Andrew G. Vaughn editor.
  • ‘Le parlate giudeo-italiane’, Carla Vivanti, Gerusalemme, Università Ebraica, a. a. 2016- 2017.
  • ‘Breve storia dell’ebraismo’, Dan Cohn-Sherbok e Lavinia Cohn-Sherbok, edizioni Il Mulino.

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