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Le lingue semitiche #2 — Racconto aramaico

Quali sono le lingue semitiche, e che caratteri hanno? Salpiamo alla scoperta di questa grande famiglia linguistica, sviluppatasi sull’altra sponda del Mediterraneo e così importante nella storia delle civiltà.

Come abbiamo visto nell’articolo sulla storia della lingua ebraica, Gesù parlava l’aramaico galileo. A quell’epoca, insieme al greco, era la lingua di uso comune in Galilea, Palestina e in generale tutta la zona denominata Vicino Oriente. I Vangeli riportano un certo numero di espressioni e parole in aramaico che sono entrate nel nostro parlare corrente: mammona, osanna, raca ne sono esempi conosciuti più o meno da chiunque abbia praticato anche solo un poco il catechismo o la parrocchia nella propria infanzia e vengono utilizzate anche nell’italiano comune. Altre, come ‘Talità kum!’ o ‘Eloì, Eloì, lamà sabactani?’ sono frasi intere in aramaico di Galilea note a chi ha dimestichezza con la lettura del secondo testamento.

Sembra pacifico che, oltre all’aramaico, Gesù conoscesse anche l’ebraico, vista la scioltezza con cui discettava delle Sacre Scritture con i saggi. Alcuni studiosi sostengono che non è sciocco ipotizzare una sua conoscenza, anche limitata, del greco, visto e considerato la diffusione della lingua ellenica nel territorio vicino-orientale all’epoca. In ogni caso, è possibile affermare che l’aramaico rimase vivo e vegeto e addirittura egemone in Palestina e altre aree dell’Asia prossima fino al VII secolo d.C.

Dal principio

Infatti, solo con l’avvento dell’invasione araba e la diffusione dell’Islam l’aramaico vide ridotto il proprio raggio d’azione, che è rimasto comunque attivo fino ai nostri giorni: questa lingua, le cui prime attestazioni scritte risalgono all’inizio del I millennio a.C., è alla fine dei conti un vecchietto di ben tremila anni, ancora parlato in certe zone del Medioriente. Ma, come sempre, per comprendere la fabula, bisogna seguire l’intreccio, e questo qui non è dei più lineari.

Partiamo dunque dall’inizio, ab urbe condita, da quello che gli studiosi definiscono per facilità aramaico antico, l’idioma del popolo degli aramei, una lingua epigrafica, cioè il cui corpus è costituito principalmente di iscrizioni ‘pubbliche’ su supporti duri come la pietra (pensiamo al codice di Hammurabi o alla stele di Rosetta). Queste testimonianze sono state trovate in parti dell’odierna Siria e dell’antica Assiria, e sono databili tra il X e il VII secolo a.C. Gli accademici sogliono porre la fine dell’aramaico antico all’epoca in cui il popolo eponimo fu sottomesso dai vicini Assiri, cioè circa il 700 a.C.

L’impero scolpisce ancora

Fu allora che l’aramaico antico divenne una lingua importante, usata dagli imperi che si succedettero nella zona, come quello assiro o quello dei Parti. Certo è il suo utilizzo presso gli achemenidi, grazie specialmente a Dario I, e nemmeno l’invasione da parte di uno degli uomini di guerra più eccezionali che la storia ricordi, Alessandro il Grande, scalfì il suo smalto. La determinazione della sua evoluzione rispetto all’aramaico antico è un argomento delicato, gli accademici sono in netto disaccordo in merito, e di fatto è giustificata solo da cesure storiche e non prettamente linguistiche.

Le fonti per l’aramaico imperiale sono più diversificate: se rimane una lingua principalmente epigrafica, non va dimenticata la presenza di un corpo letterario costituito dal Racconto e dai Proverbi di Ahiqar. Gli studiosi tendono ad includere anche alcuni capitoli del libro biblico del profeta Ezra, sebbene da un punto di vista puramente linguistico essi non siano affidabili, poiché furono sottoposti allo stesso trattamento di revival dell’ebraico presso la scuola medievale di Tiberiade.

Dall’Asia a Costantinopoli

In realtà qui c’è un nodo da sciogliere per capire alcune cose: in passato si è voluto raggruppare sotto la dicitura di ‘aramaico biblico’ le suddette parti del libro di Ezra, di Daniele e alcune frasi sparse qua e là nella Tanakh. Alla luce di studi autorevoli che sono riferiti anche nel testo ‘Introduzione alle lingue semitiche’ di Giovanni Garbini e Olivier Durand, l’aramaicizzazione di queste parti della Bibbia altro non è che un falso storico volto a conferire un alone di antichità e autenticità a testi che trattano di argomenti accaduti in un passato ben più lontano rispetto all’epoca in cui furono vergati.

Ha molto più senso, sempre secondo Garbini e Durand, parlare di un aramaico giudaico, e far rientrare in tale definizione il libro di Daniele, appunto, così come parti del Talmud, i testi di Qumran (famosi come ‘i rotoli del Mar Morto’) e, ovviamente, i targumim. Con questa parola aramaica che significa ‘traduzioni’ si intendono le versioni in aramaico della Bibbia ebraica, utili agli ebrei tornati da Babilonia per capire bene il testo ebraico.

Nell’alveo dell’aramaico, poi, è possibile individuare anche dialetti quali il nabateo, il palmireno, il mandaico e il siriaco. Quest’ultimo fu molto importante poiché i cristiani d’oriente, appunto detti siriaci, lo utilizzarono lungamente veicolando in asia la fede in Cristo. È un aramaico dalle forti influenze greche, dal quale si discostò quello di varietà cristiana palestinese, anche detto melkita, perché col siriaco comunicavano anche i cristiani nestoriani, distaccati dall’autorità imperiale di Costantinopoli a cui invece i palestinesi rimanevano fedeli (appunto melkiti, da malkā, cioè ‘re’).

Tempi duri

Il periodo più difficile attraversato dall’aramaico è stato l’inizio del XX secolo, specie alla luce di una sciagura epocale detta Sayfo (spada), che si abbatté sui cristiani assiri sudditi dell’Impero Ottomano tra il gennaio e il maggio del 1915: il genocidio assiro. Meno noto dello sterminio armeno e greco, dei quali fu coevo, si tratta comunque di una tragedia di proporzioni immani. Si stima infatti che Ottomani e Curdi abbiano operato in formazione congiunta il massacro di almeno 250.000 cristiani assiri. Questo numero potrebbe essere troppo basso, secondo alcune fonti, e andrebbe alzato a 275.000: di fatto fu trucidata la metà di tutta la popolazione cristiana assira della zona interessata.

Oggi l’aramaico moderno è usato da popolazioni sparse tra Turchia, Siria, Iraq, Israele, Palestina, ma anche nei paesi caucasici. È una lingua ancora viva, seppur parlata da pochissimi (circa 400.000 persone), che ha spento almeno 3.000 candeline sulla sua torta. Conoscerne la vicenda permette di aggiungere un tassello alla complessa e composita storia del Vicino Oriente, spesso negletta dalla storiografia proposta nei programmi scolastici.

Perché Medioriente non è solo arabo, islam, conflitto israelo-palestinese, guerre del golfo o lotte per il petrolio e terrorismo. Medioriente è stato anche un patrimonio linguistico, archeologico e culturale ricchissimo, appena fuori la porta di casa nostra: parafrasando una vecchia canzone viene da dire che oltre la mezzaluna fertile c’è ben di più! Talvolta appoggiare sul tavolo il monocolo antiquato con la lente di stampo classico e inforcare solidi occhiali un po’ meno eurocentrici può rivelarsi interessante e illuminante.


Bibliografia:

  • ‘Introduzione alle lingue semitiche’, Giovanni Garbini e Olivier Durand, ed. Paideia;
  • ‘Biblical Peoples and Ethnicity: an archaeological study of Canaanites, Egyptians, Philistines, and Early Israel, 1300–1100 BCE’, Ann E. Killebrew, Andrew G. Vaughn editor.

 

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