Perché chiamiamo Dante per nome, ma Petrarca e gli altri per cognome?
Di Dante ce n’è uno solo, e dietro a quella che ha tutta l’aria di una confidenza ci sono anche ragioni storiche che investono l’origine dei cognomi.
Da quando sono ritornato al liceo, prendendo questa volta posto dall’altro lato della cattedra, ho notato il ripresentarsi, ciclicamente, di quel momento della lezione in cui fioriscono domande che apparentemente sembrano esulare da quelle propriamente didattiche ma che, cambiati i tempi, cambiati i banchi, sono le stesse che un tempo mi chiedevo anche io e che mostrano una genuina sete di curiosità: “Leopardi era pessimista solo perché brutto e gobbo, prof.?”, “D’Annunzio si fece davvero asportare le costole?”, “Prof., perché chiamiamo Dante per nome mentre Petrarca e gli altri per cognome?”
Se la prima domanda è facilmente inquadrabile come ingenua, la seconda del tutto etichettabile come leggenda metropolitana – nonostante il leggero disappunto dell’utenza in trepidante attesa di assenso –, la terza domanda, oltre a sottintendere un errore che tratteremo a breve, mi pone in una posizione sempre un po’ in bilico tra realtà, frottole e lo zampino di Boccaccio.
Breve origine dei cognomi
Occorre, per meglio sciogliere il nodo, fare un passo indietro e riflettere non tanto su cosa sia il cognome oggi bensì da quali esigenze nasca e quali origini abbia, per poi arrivare alla sua funzione al tempo di Dante.
Tutti hanno un cognome e l’appello scolastico lo ricordava ogni giorno: faceti, ordinari o possenti sembrano oggi non essere che la naturale prosecuzione dei nostri nomi propri.
Com’è facile immaginare, però, non è sempre stato così e ciò che indichiamo come cognome è il risultato di una lunga serie di esigenze storico-sociali: dalla coscienza di sé come individui, alla necessità di distinguersi e riconoscersi – all’interno della comunità, fino alla, cronologicamente successiva, spinta proveniente dalla Chiesa e dalle autorità per la regolamentazione dell’identità onomastica della popolazione.
L’origine e l’utilizzo del cognome non sono stati, quindi, fenomeni organici e irreversibili –quali, dopotutto, lo sono stati nella nostra storia? – ma processi segnati da contrapposizioni, deviazioni, incoerenze e differenze geografiche, tanto in Italia quanto all’estero: i miei alunni di origine araba rivendicano, con orgoglio, come la coppia nome-cognome sia per loro astrusa, dato che nella loro cultura quest’ultimo è come se non esistesse!
È una storia, quindi, non del tutto finita e che, forse, non finirà mai: in occidente, ha lontane origini nel sistema dei tria nomina latini, praenomen, nomen e cognomen. Attenzione a non tradurre alla facilona, però: a Roma, il praenomen aveva la funzione che ha per noi il nome proprio, ossia distinguere il singolo individuo nella famiglia (per esempio Caius), il nomen rivelava la sua appartenenza alla determinata gens, o gruppo famigliare, (Iulius) – è l’equivalente quindi del nostro cognome – mentre il cognomen, che inizialmente era usato come “soprannome” per meglio identificare qualcuno di particolare rilievo, successivamente, trasmettendosi da padre in figlio, fu usato per distinguere di fatto una famiglia nucleare all'interno della più ampia gens (come Caesar).
Si tratta di uno dei rari casi in cui le rassomiglianze tra il latino e la nostra lingua non sono di aiuto agli italofoni; una lontana eco latina, però, la ritroviamo in una lingua a noi vicina: i cugini francesi d’Oltralpe firmano, infatti, tutt’oggi, con il prénom e il nom, rispettivamente nome e cognome.
E lo scivolone è servito!
I cognomi delle tre corone fiorentine
Come anticipato più su, la domanda: “Perché chiamiamo Dante per nome mentre Petrarca e gli altri per cognome?” presenta un grossolano, quanto ingenuo, errore di fondo. Il malinteso è considerare Petrarca – e con esso Boccaccio ma la lista di letterati compresi tra il Duecento e Trecento è molto più lunga – un cognome dal valore moderno.
Delle tre corone fiorentine, titolo che si riserva a Dante, Petrarca e Boccaccio, i due autori venuti dopo Dante sono passati alla storia non con il cognome bensì col patronimico, ossia con un appellativo derivato dal nome del padre.
Petrarca è, infatti, una latinizzazione del nome del notaio ser Petracco, padre del poeta, mentre l’autore del Decameron era figlio di un certo Boccaccio di Chellino e soleva firmarsi come Giovanni di Boccaccio.
Nessun nesso con gli attuali cognomi – anche se un occhio attento noterà dei patronimici negli attuali De Michele, Di Giacomo, De Luca: nel Due-Trecento, avere un cognome significava semplicemente far parte di una famiglia nota e prestigiosa ed essere socialmente riconosciuti per questo: sia chiaro che non vi era alcun pubblico beneficio a possederne uno, alcuna esenzione di tasse o simili imparzialità, ma semplicemente il lusso di essere pubblicamente riconosciuti. Un Forese Donati era, tutto sommato, un uomo di un certo peso – non privilegio – sociale di fama cittadina più elevata di un Guido di un qualunque Guinizello.
E Dante?
«Chi fuor li maggior tui?» gli chiede, tronfio, Farinata degli Uberti, in uno dei più noti e virtuosistici incontri dell’Inferno, e noi con lui.
Dante non ci riporta la risposta anzi, per tutta la Commedia, si mostra piuttosto timido a rilasciare dichiarazioni biografiche su di sé: esclusivamente in Purg. XXX, dopo sessantaquattro episodi vissuti insieme, quello che fino a quel momento è stato un anonimo viatore verrà rimproverato per nome, per la prima e ultima volta nell’opera, nientepopodimeno che dallo spirito infuriato di Beatrice; dovremo attendere Par. XV, poi, per avere un sibillino indizio sulla sua discendenza tra le parole del trisavolo Cacciaguida.
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo
Filologi e studiosi, dopo aver devotamente raccolto ogni documento oggi fruibile, non hanno però confermato quest’informazione, ossia che il nome di famiglia degli Alighieri deriverebbe proprio dalla moglie del trisavolo; solo Boccaccio ci tramanda che costei sarebbe tale Aldighieri proveniente forse da Ferrara ma non ci è dato sapere come lui sapesse e il dato, quindi, lascia il tempo che trova.
Che si tratti di verità o sia stato tutto sapientemente rimaneggiato da mani esperte, sappiamo che la forma finale Alighieri è quella che l’ha spuntata dopo un’accanita concorrenza: nei documenti datati fine XII inizio XIV secolo si trovavano forme, in latino o volgare, come Alaghierus, de Allegheriis , Alleghierus, de Allegheriis, Alleghieri e molte, troppe, altre.
Dante stesso “cambia cognome” a seconda degli anni e degli atti legali ritrovati: citato come de Allegheriis quando, nel 1300, è ambasciatore di Firenze, de Allagheriis quando l’anno successivo è eletto supervisore di alcuni lavori pubblici e de Allaghieris in un riferimento notarile del 1305.
È solo dopo la morte di Dante, complice la gran fortuna delle sue opere, che la forma Alighieri si fece sempre più spazio anche grazie a – io oserei un severo a causa di – Boccaccio che, per la prima volta nella storia, scriverà di lui come Dante Alighieri, che giustifica con la caduta o ellissi della “d” di Aldighieri; sui danni provocati da un inesperto Boccaccio passione filologo ne sono pieni i manuali ma questa è un’altra, interessante, storia.
“Dante” basta e avanza
La situazione, paradossalmente, si è ribaltata: Dante è l’unico tra le corone a presentare quello che possiamo considerare un proto-cognome e, se diamo per certe altre parole di Cacciaguida, da ben quattro generazioni.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’anni e piùe
girato ha ‘l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue»
Questo però non cambia la realtà dei fatti: certi autori sono ricordati per patronimico, altri effettivamente per cognome ma la tradizione critica, e scolastica, riserva solo a Dante il privilegio di essere ricordato per nome.
Ci si è chiesti seriamente – al di là delle semplici domande di uno studente curioso – come mai ci sia stata questa evidente disparità di menzione; poco sembrano reggere le ragioni di tipo oggettivo che la giustificano per l’infrequenza con cui il nome “Dante” ricorre nell’alta letteratura italiana rispetto, per esempio, a un “Giovanni”: se è vero che questo è un nome abbastanza comune (vedi Boccaccio, Verga o Pascoli), quanti ulteriori “Ugo” o “Torquato” si ricordano oltre i ben famigerati Foscolo e Tasso?
Le ragioni del privilegio donato a Dante, quindi, vanno trovate oltre l’obiettività e la navicella del nostro ingegno, rimaneggiando proprio una metafora dantesca, deve sì alzare le vele ma arrendersi all’ovvio: solo un rara avis può permettersi di volare attraverso la storia citato, ricordato, studiato – e imprecato – esclusivamente per nome, quasi come se il cognome e\o il patronimico fosse un inutile barocchismo.
Dante basta e avanza, nessun pericolo di equivoco: chiunque, con un minimo grado di istruzione, sa che parliamo per antonomasia del padre della nostra lingua e della nostra letteratura e ne associa, in linea di massima, qualche riferimento alla Commedia.
Se, poi, ci ricordassimo che Alighieri è un cognome di ricostruzione, neanche così filologicamente supportata, di matrice boccacciana, magari ci sentiremmo anche più rispettosi nei confronti del ghibellin fuggiasco limitandoci a ricordarlo con l’unico appellativo onomastico di cui vi è certezza storica: il suo nome.
Chiamare qualcuno col nome è il più naturale simbolo di confidenza e coinvolgimento affettivo che esista, fuori dalla confortevole cerchia di conoscenti, il cui utilizzo da parte altrui spesso lusinga e altre volte offende (se un vecchio prof. universitario, incontrandomi, mi riconosce per nome mi sentirei adulato ma se lo fa un mio alunno, ex o attuale che sia…), noi con Dante ci spingiamo addirittura oltre: il figlio Jacopo, infatti, riferisce che il vero nome del padre sarebbe stato Durante, in ricordo di un parente forse di ramo materno. Les jeux sont faits: non solo chiamiamo Dante per nome ma, addirittura, per ipocoristico (una sorta diminutivo\vezzeggiativo), come fossimo amici di lunga data o familiari affezionati: quanta confidenza!
Ma va bene così: Dante, dopotutto, ha sempre trattato i suoi lettori, contemporanei e posteri, come tali dedicando anima e corpo a quell’opera colossale che parla di noi e scritta per noi, come fa un genitore o l’amico di sempre.
Dante ama la lingua dove il sì suona, l’Italia e gli italiani e, come tale, è severissimo con quest’ultimi: nella sua opus magna non risparmia invettive verso coloro che l’hanno ridotta a un bordello di ignoranza, disfacimento e malcostume. L’ira che il poeta rivolge contro la patria e chi la abita è frutto evidente dell’amore immenso che egli nutre per essi, perché li vorrebbe diversi, destinati a grandi cose, puri e disposti a salir a le stelle. E lo fa con parole che, dopo qualche secolo di labor limae, sono quelle che usiamo ancora oggi, lingua di un’Italia che, nella testa e nel cuore di Dante, si doveva far nazione per il bene di chi la abitava.
A distanza di sette secoli, non solo leggiamo e studiamo ancora i suoi scritti – croce e delizia di generazioni studentesche – ma gli intitoliamo strade, piazze e, dal 2020, un giorno del calendario (il 25 marzo, probabile data di inizio del suo viaggio ultraterreno) ma non è finita qui: Dante e la Commedia hanno affascinato, e affascinano tutt’ora, non solo critici, studiosi e divulgatori del settore: gli appassionati conosceranno Dante Shinkyoku, versione illustrata della Commedia (da cui è tratta l'immagine sopra) che il mangaka Gō Nagai ha sapientemente riprodotto per il pubblico nipponico o gli acclamati videogiochi per console Dante’s Inferno e Devil may cry: a differenza del primo, quest’ultimo pur non essendo una ripresa videoludica della Commedia ha per protagonisti due gemelli di nome Vergil e Dante, costui cacciatore di demoni infernali. Qualcuno ha parlato di riferimenti?
Trasferendoci su carta, poi, un’avventura del professor Langdon, già protagonista del Codice Da Vinci, ruota proprio attorno ai presunti segreti della Commedia tra Firenze, Venezia e Istanbul.
Un fascino, quello di Dante, che attraversa tutt’oggi il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti, in un eterno e felice esilio: tra gli scaffali di critica e letteratura, tra quelli dedicati alle lettura da spiaggia e sulle mensole adibite ai videogiochi e fumetti, mentre ci risuona nelle tasche su una faccia dei due euro. Insomma, davvero c’è bisogno di chiederci perché lo chiamiamo per nome, per buona pace di Petrarca & company?
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