Anacoluto
a-na-co-lù-to
Significato Figura retorica per cui le parti della frase hanno una sintassi incoerente
Etimologia dal greco: anakoluthos che non segue, composto di an- negazione e akoluthos che segue - da cui anche “accolito”.
Parola pubblicata il 06 Giugno 2011
Figura retorica non facile ma fondamentale.
La figura dell’anacoluto è scolasticamente qualificabile come errore di sintassi: due parti della frase sono fra loro grammaticalmente incongruenti - nonostante congruente sia il senso. È una figura comune nella spontaneità improvvisata del parlato - succede: si inizia una frase in un modo e si finisce in un altro - ed è usata, in letteratura, per rendere questo effetto o per ottenere una maggiore efficacia d’espressione.
Quando a fine serata si è rimasti in pochi e si deve decidere che combinare oltre, ci si guarda neglio occhi e si chiede “Noi che si fa?”. Questo è un anacoluto: il “noi” resta zoppo, un conato di frase incoerente apposto al compiuto “che si fa?”. Però, grazie all’anacoluto, come espressione risulta tanto più vibrante e completa, e il soggetto logico risalta.
Visto il meccanismo, è naturale che tornino famosi gli anacoluti dei proverbi (“Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”), che sono cristallizzazioni di detti.
Volendo fare degli esempi di letteratura, celeberrimi sono gli anacoluti de “I promessi sposi” di Manzoni (“Quelli che moiono, bisogna pregare Iddio per loro”; “Il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”), pur risultando un po’ ostentati e pacchiani: forse l’uso più splendido di questa prodigiosa figura retorica lo troviamo ne “I Malavoglia” di Verga, cullato silenziosamente nel discorso indiretto libero (“[…] si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poichè da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua…”).
Per quanto riguarda l’efficacia d’espressione, cito soltanto Machiavelli: esiliato a Sant’Andrea in Percussina, si ritrovò a passare le sue giornate fra i bifolchi di campagna; ma a sera si ritirava nel suo scrittoio, si cambiava d’abito indossando i migliori che avesse e si immergeva nell’accogliente e solenne lettura dei classici, pascendosi di quel cibo che era soltanto suo e per il quale sentiva di essere nato: ma lui questo lo dice “[…] mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui.” Forse l’anacoluto più bello e potente della letteratura italiana.