SignificatoFunzione religiosa, solenne celebrazione pubblica; ostentazione di rispetto
Etimologia dal latino caerimonia ‘sacralità, l’esser sacro’, ma anche ‘venerazione, riverenza’ e ‘rito’.
Appena mi pongo la domanda su da dove salti fuori una parola come questa, la strada sembra già tracciata, quasi banale. Alla cerimonia ci sono ceri accesi, candele di cera, no? No. La via è ben più lunga, tracciata in maniera più leggera; l’origine oscura, e suggestiva.
Corretto dire che la matrice è religiosa. Certo, non si sa da dove scaturisca il caerimonia latino, ma pare possa essere di origine etrusca, e c’è chi avanza la possibilità del suo riferimento a riti condotti dai sacerdoti etruschi di Caere - Caere Vetus, oggi Cerveteri. Propriamente, in latino, è un sostantivo che descrive la sacralità, il carattere del sacro, l’essere sacro. Un nocciolo chiaro e forte. Ma questi significati si estendono alla situazione del sacro, raccogliendo la venerazione, il rispetto, la riverenza religiosa, e infine e soprattutto la celebrazione, la liturgia del sacro, il rito.
Nel Trecento questa parola viene recuperata dal latino per essere inclusa nel nuovo italiano, e attagliarsi subito alle celebrazioni cristiane. La cerimonia si presenta quindi naturalmente nella nostra lingua come funzione religiosa, non senza una sfumatura di particolare solennità; ma in breve diventa il complesso di atti con cui, sempre solennemente, si compie una celebrazione pubblica in genere, anche del tutto laica - pensiamo alle cerimonie di giuramento, di consegna di onorificenze, e via e via. Il punto interessante è che già verso la fine del Quattrocento la cerimonia (anzi nell’uso le cerimonie, al plurale) diventi l’ostentazione di rispetto, il convenevole esteriore e del tutto formale. Un uso certo non lusinghiero, che non è difficile immaginare maturato all’ombra di cerimonie inutilmente lunghe e affettate, se non ipocrite. Si taglia verso il centro bruciante della discussione senza cerimonie, l’amico ghiottone non fa cerimonie e stappa da sé la nuova bottiglia di vino, e la canzone che senza cerimonie si leva dalla festa è la più travolgente.
Ancora una volta, sotto alle cerimonie dei nostri giorni, belle, importanti, accorate, che senz’altro pensiero chiamiamo con questo nome, affonda fino a perdersi la radice antica delle cerimonie da cui il nostro concetto sgorga, in cui possiamo avere l’impressione d’intravedere i gesti lenti di sacerdoti dagli occhi allungati, dagli alti cappelli.
Appena mi pongo la domanda su da dove salti fuori una parola come questa, la strada sembra già tracciata, quasi banale. Alla cerimonia ci sono ceri accesi, candele di cera, no? No. La via è ben più lunga, tracciata in maniera più leggera; l’origine oscura, e suggestiva.
Corretto dire che la matrice è religiosa. Certo, non si sa da dove scaturisca il caerimonia latino, ma pare possa essere di origine etrusca, e c’è chi avanza la possibilità del suo riferimento a riti condotti dai sacerdoti etruschi di Caere - Caere Vetus, oggi Cerveteri. Propriamente, in latino, è un sostantivo che descrive la sacralità, il carattere del sacro, l’essere sacro. Un nocciolo chiaro e forte. Ma questi significati si estendono alla situazione del sacro, raccogliendo la venerazione, il rispetto, la riverenza religiosa, e infine e soprattutto la celebrazione, la liturgia del sacro, il rito.
Nel Trecento questa parola viene recuperata dal latino per essere inclusa nel nuovo italiano, e attagliarsi subito alle celebrazioni cristiane. La cerimonia si presenta quindi naturalmente nella nostra lingua come funzione religiosa, non senza una sfumatura di particolare solennità; ma in breve diventa il complesso di atti con cui, sempre solennemente, si compie una celebrazione pubblica in genere, anche del tutto laica - pensiamo alle cerimonie di giuramento, di consegna di onorificenze, e via e via. Il punto interessante è che già verso la fine del Quattrocento la cerimonia (anzi nell’uso le cerimonie, al plurale) diventi l’ostentazione di rispetto, il convenevole esteriore e del tutto formale. Un uso certo non lusinghiero, che non è difficile immaginare maturato all’ombra di cerimonie inutilmente lunghe e affettate, se non ipocrite. Si taglia verso il centro bruciante della discussione senza cerimonie, l’amico ghiottone non fa cerimonie e stappa da sé la nuova bottiglia di vino, e la canzone che senza cerimonie si leva dalla festa è la più travolgente.
Ancora una volta, sotto alle cerimonie dei nostri giorni, belle, importanti, accorate, che senz’altro pensiero chiamiamo con questo nome, affonda fino a perdersi la radice antica delle cerimonie da cui il nostro concetto sgorga, in cui possiamo avere l’impressione d’intravedere i gesti lenti di sacerdoti dagli occhi allungati, dagli alti cappelli.