Dolore
do-ló-re
Significato Sensazione di sofferenza fisica o di profonda sofferenza morale
Etimologia dal latino dolor.
Parola pubblicata il 25 Maggio 2023
Alessandro Manzoni, le parole - con Lucia Masetti
Il 22 maggio 2023 ricorrono i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, celeberrimo, odiosamato gigante della nostra letteratura. L’impatto della sua opera sulla lingua italiana ha un rilievo con pochi paragoni: lo raccontiamo in sette parole — un dizionario minimo manzoniano, un piccolo safari nei 'Promessi sposi'.
Come è che nasce una parola così basilare? Da dove scaturisce la prima figurazione del dolore, la prima descrizione, la prima metafora che si coagula in questa parola — origine che la frana dei secoli trasfigura tanto da non far più percepire? Abbiamo una pletora di sinonimi che insistono sul suo punto, ma il dolore ha una posizione assolutamente centrale, una sobrietà essenziale che però non tace niente.
Nella misura in cui sia mai possibile avere certezze in questo ambito quasi impenetrabile di storia della lingua, stavolta secondo chi ha studiato il problema c’è qualcosa di netto che possiamo dire. Il dolor latino, che continua senza scossoni nel nostro ‘dolore’ italiano, è un derivato di dolère, ‘causare o provare dolore’, anche questo (in parte) passato in italiano: l’ipotesi più solida è che il dolere latino sia fratello del molto meno noto verbo dolare.
Questo dolare ci racconta un lavorare con l’ascia, uno sgrossare, uno scolpire, ed è fatto derivare dalla radice protoindoeuropea ricostruita come delh-, col significato di ‘tagliare, fare a pezzi’. Il prototipo concettuale del dolore è un colpo da boscaiolo che schianta, fende, tronca — con eloquente, terribile allusione, riferito al corpo. Nascosta in questa parola c’è l’esperienza osservata direttamente da testimoni ancestrali, e raccontata con una metafora così antica da essere quasi del tutto illeggibile. Da qui, la via concettuale di tutte le intrecciate complessità di tutti i nostri dolori.
C’è una vena che percorre tutta l’opera di Manzoni, ed è il tema del dolore. Le sue pagine non avrebbero lo stesso colore se non ne fossero irrorate. Ma il sangue che vi scorre ha assunto, negli anni, una coloritura inaspettata; ed è la bellezza del dolore.
Non che il dolore sia bello in sé. Semmai la bellezza è svelata dal dolore, come l’oro dal fuoco. Per la verità è più frequente che la sofferenza, soprattutto se estrema, produca un abbrutimento, una regressione dell’uomo a “ingombro”, come quelli che Renzo deve scansare per le vie di una Milano invasa dalla peste. Lo notava anche Primo Levi, chiedendosi appunto Se questo è un uomo. Tuttavia, nelle strade appestate come nel lager, si mostra talvolta una dignità, una grandezza d’animo che il dolore non è riuscito a spegnere, e sembra anzi aver acuito.
Del resto anche in contesti meno tragici si incontrano nature che la malattia e la vecchiaia, anziché inasprire, hanno reso più dolci e profonde. A me viene in mente la mia nonna, che come il cardinal Federigo conservava “nel pallore, tra i segni […] della fatica, una specie di floridezza verginale: […] una, direi quasi, bellezza senile” (cap. XXIII).
Pathei mathos, dicevano già i Greci: la sapienza che viene dal dolore. Ma per Manzoni è più di questo: è al fondo del dolore che si trova Dio. Non a caso definisce “passione” la sofferenza della madre di Cecilia, che diventa tutt’uno con quella di Cristo. Anche Padre Cristoforo, quando all’inizio del romanzo apprende la sventura dei due sposi dalle labbra di Lucia e Agnese, dice una cosa molto bella e molto strana: “Dio vi ha visitate” (cap. V). In qualche modo quindi il dolore contiene un mistero e, insieme, una promessa di resurrezione.
Per intuirli, però, è necessaria “un’anima consapevole”: non persa in una rassegnazione passiva o in una ribellione sterile, bensì “presente” al compito che il dolore pone, alla richiesta di significato che solleva. Ciò implica che, per Manzoni, anche nella sofferenza c’è uno spazio di libertà, una scelta possibile. Lui stesso lo sottolinea parlando della monaca di Monza, che con la sua bellezza “sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta” dal dolore è l’esatto contraltare della madre di Cecilia (cap. IX).
Tale è anche il senso dell’esortazione che il direttore del lazzaretto rivolge a chi ne esce: trasformare l’esperienza del dolore in un pungolo a vivere bene il tempo che ci è affidato, e in una fonte viva di compassione per gli altri (cap. XXXVI). E forse non è senza significato che queste parole siano pronunciate da un uomo che, nel romanzo come nella realtà, porta il nome di padre Felice.