Glorioso

glo-rió-so

Significato Che ha o dà gloria, degno di venerazione

Etimologia voce dotta recuperata dal latino gloriosus, derivato di gloria.

Sic transit gloria mundi: così passa la gloria del mondo. Quante volte l’abbiamo sentita e letta, questa frase latina, magari come epigrafe su una tomba, a ricordarci il carattere effimero di ogni grandezza umana. Un tempo, il cerimoniere la ripeteva tre volte al neoeletto papa, mentre – per rendere più icastico il concetto – gli bruciava davanti un batuffolo di stoppa. Ma davvero la gloria è sempre e solo passeggera?

Indubbiamente, a livello semantico la parola gloria ha sempre recato lo stigma della labilità. Di etimo incerto, in latino essa significava tanto gloria, fama, quanto “vanagloria”, e l’aggettivo gloriosus indicava volentieri il vanaglorioso piuttosto che il glorioso: il Miles gloriosus, opera del celebre commediografo latino Plauto (III-II sec. a.C.), ha infatti per protagonista un soldato spaccone, sempre intento a millantare mirabolanti imprese militari e amorose. Inoltre il famoso, etimologicamente, altro non è che “ciò di cui si parla”, e la gente, com’è noto, si annoia e cambia argomento molto in fretta. D’altro canto, però, in ambito religioso la gloria è tutt’altro che transeunte: quando si parla della gloria di Dio o dei santi, non s’intende certo la loro fama tra i mortali, bensì la loro magnificenza, splendore, beatitudine eterna.

Per la verità, al di fuori della sfera religiosa non abbiamo molte occasioni, oggi, di usare la parola gloria: ci suona irrimediabilmente retorica in qualunque contesto, da quello militare (cercare la gloria in battaglia) a quello artistico (ottenere gloria imperitura con le proprie opere), ad eccezione delle partite di beneficenza tra vecchie glorie del calcio e delle (frequenti, ahinoi) ironie sul lavorare per la gloria, cioè gratis. Gli anglofoni sì, invece, che hanno dimestichezza con essa, visto che usano l’aggettivo glorious per definire – oltre ai soliti soldati, battaglie e patrie – una varietà di cose che in italiano, salvo essere pessimi traduttori, ci guarderemmo bene dal definire “gloriose”: il bel tempo (glorious weather), una bevanda (glorious wine), un colore (a glorious blue), persino il sapore di qualcosa (a glorious taste of meat). Un’accezione genericamente superlativa, insomma, corrispondente a splendido, magnifico.

È rimarchevole, peraltro, che quest’uso del termine sia speculare a quello religioso. La gloria divina, infatti, nel cristianesimo è intesa anzitutto (traducendo l’ebraico Shekinah) come presenza luminosa, splendore, tanto che nelle arti figurative il termine gloria indica l’emanazione di luce che simboleggia la sacralità, ad esempio l’aureola dei santi – ma anche, si capisce, la glorificazione, l’apoteosi di mortali da immortalare. Perché Dio è essenzialmente luce, proprio come la fama: difatti in latino clarus valeva anche famoso, celebre, e ancora oggi usiamo spesso, per significare la rinomanza di qualcuno, parole attinenti alla luce (“chiarissimo”, “preclaro”, “illustre”) mentre definiamo oscuro chi è sconosciuto ai più. La lingua inglese ha fatto qualcosa di analogo con l’aggettivo glorious: se gloria vale splendore, allora glorious equivale a splendid.

Come ammonivano i nostri avi, però, non è tutto oro quel che luccica, e forse faremmo bene – come i papi – a non confondere la luce eterna con quella della stoppa che avvampa e dilegua in un baleno. Ma davvero questa consapevolezza può dissuadere qualcuno dall’inseguire una luce qualsiasi, anche fugace? O non è proprio perché la fiamma si consuma in fretta che la si brama più avidamente?

Parola pubblicata il 04 Giugno 2019

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