Intarsiato
in-tar-sià-to
Significato Ornato, decorato con motivi ad incastro; di superficie, abbellita con elementi in legno, madreperla, osso e altri materiali preziosi finemente lavorati
Etimologia dal verbo arabo raṣṣa’a, intarsiare, fregiare. Il nome verbale che ne deriva, tarṣī’, definisce l’azione del decorare, dell’intarsiare, del mettere insieme facendo combaciare.
Parola pubblicata il 08 Maggio 2020
Parole semitiche - con Maria Costanza Boldrini
Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.
Le meraviglie custodite nella Alhambra di Granada o le porte delle madrase di Samarcanda sono esempi fulgidi dell’arte musulmana. L’islam, così come l’ebraismo, è una fede aniconica, ovvero vieta la rappresentazione di Dio. Il Profeta ricorre in numerose miniature in cui sono illustrati episodi della sua vita, e non sono rare le raffigurazioni di altri personaggi storici, ma in una moschea non si incontreranno mai i quadri e gli affreschi che invece abbelliscono le chiese cristiane.
Si vedranno invece degli intricati motivi a metà strada tra l’astratto e il fiorito, fra i quali, se si osserva con occhio attento, si potrà distinguere uno dei capisaldi dell’arte musulmana: la calligrafia. I versetti del Corano, riportati con ghirigori e abbellimenti vari (come se l’alfabeto arabo non fosse già arzigogolato di suo), si dipaneranno a perdita d’occhio sulle piastrelle e sulle placche lignee che ricoprono le mura delle moschee, dalle più antiche, come quelle di epoca omayyade che si trovano a Gerusalemme, alle più moderne che si possono visitare a Dubai.
L’arte della decorazione murale a incastro, con motivi calligrafici, floreali e astratti (motivi che non a caso chiamiamo ‘arabeschi’) usa materiali quali il legno, la madreperla, gli smalti, gli stucchi e le lamine d’oro, componendoli tra loro in modo che il risultato sia un intricato e fiorito labirinto. Questa tecnica può essere applicata agli edifici, ma anche agli oggetti più piccoli, come gli scrigni, i tavolini, le scacchiere e più in generali i mobili di casa. Essa prende il nome di tarsìa, una parola che l’italiano ha colto all’arabo per vie non chiare ma che risulta appartenere alla nostra lingua già nel secolo XIII. Questa tecnica si è ricavata un certo prestigio nella storia dell’arte del nostro paese anche grazie a capolavori esemplari, come ad esempio (custodito tra le solide mura del Palazzo Ducale di Urbino) lo studiolo del duca Federico da Montefeltro, ricoperto di preziosissime tarsìe lignee, attribuite a diversi maestri del campo come Giuliano e Benedetto da Maiano.
Ecco che, di ritorno da un viaggio a Gerusalemme, portiamo come souvenir alla nonna un cofanetto tutto finemente intarsiato in legno e madreperla, e nel documentario è ben mostrato il minuzioso lavoro dell’esperto intarsiatore, e ci informiamo su quale sia la scuola migliore dove apprendere l’arte della tarsìa.
Ma non dobbiamo tralasciare gli usi figurati coi quali una parola così specifica e fine può dare un gusto più marcato alla comunicazione: non mi incanti coi tuoi discorsi intarsiati e barocchi: la magagna la vedo lo stesso, l’ultimo romanzo del nostro autore preferito si rivela un eccellente lavoro di tarsìa narrativa e il regista emergente intarsia i suoi personaggi in modo delicato e convincente.
Una parola che, nelle sue diverse declinazioni, non può che intarsiare elegantemente il nostro parlare, senza però risultare stucchevole.