Etimologia dal nome di un personaggio del film ‘Cabiria’ (1914), ideato da Gabriele D’Annunzio, ricavato dal greco mákistos ‘il più grande’, superlativo di makrós ‘lungo, grande’.
Dietro a questo nome, di popolarità vasta e rétro, s’intrecciano storie di cultura alta e bassa.
Chiariamo il campo in cui ci muoveremo: stiamo parlando di un personaggio cinematografico che si distingue per essere fortissimo e buono, e che quindi per antonomasia diventa l’omone di grande forza.
Nel 1914 uscì in Italia un film dalla grande e lunga fama, un kolossal del cinema muto: Cabiria. È un polpettone di oltre tre ore, avventuroso e romantico, storico e drammatico, con scenografie grandiose e mirabolanti effetti speciali — ambientato nell’antichità, durante la Seconda guerra punica. Fra i consulenti del regista, Giovanni Pastrone, ci fu anche Gabriele D’Annunzio, che per difendere il suo stile di vita da monarca francese talvolta si abbassava a lavorare; in particolare per questo film curò le magniloquenti didascalie (film muto, ricordiamo) e inventò i nomi dei personaggi. Quello di Cabiria (la giovane protagonista) sarebbe diventato celebre insieme al film e non oltre; quello di Maciste, ricavato dal greco mákistos, ‘il più grande’, avrebbe avuto una fortuna straordinaria. L’ennesimo conio di D’Annunzio che continuiamo a usare comunemente.
Maciste, diciamo la verità, non è un personaggio di grandi complessità. È l’integerrimo servo di Fulvio Axilla, romanissimo, buono coi buoni e spietato coi cattivi, senza afflati intellettuali, ed è il fulcro di azioni memorabili che girano intorno alla sua forza sovrumana — fra cui la liberazione di una Cabiria bambina dall’altare di Moloch su cui sta per essere sacrificata, precipitando sacerdoti e armigeri giù dal tempio e su bracieri ardenti, e la rocambolesca fuga di prigione, da cui evade piegando le sbarre della cella.
In Cabiria la sua figura spiccò. Tanto che seguì una valanga di spin-off con Maciste protagonista. Quelli degli anni ‘20 lo videro interpretato dallo stesso attore che l’interpretò in Cabiria, il genovese Bartolomeo Pagano, ex camallo del porto; ma ci fu un ritorno di successo negli anni ‘60, quando furono girate almeno altre due dozzine di film su Maciste.
Non che siano stati tutti quanti capolavori, anzi; possiamo ricordare Maciste medium, Maciste in vacanza, Maciste contro il vampiro, Totò contro Maciste, Zorro contro Maciste (il fondo del barile fu ampiamente grattato — scherzandoci su, Nanni Moretti ne Il caimano cita anche un falso Maciste contro Freud). Di certo però la figura divenne popolare come poche altre — un Ercole senza quarti di nobiltà, senza sottotesti e significati mitici. Un semplice uomo grosso e forte. Così…
Posso parlare di come non servisse un maciste, per spostare quei mobili, anche se una mano mi avrebbe fatto comodo; posso parlare di come la solita soluzione da maciste, che non si perde in grandi raffinatezze, stavolta abbia un suo senso; posso parlare del maciste che mi si siede accanto in treno, molto gentile nel riporre le valigie di tutti anche se ingombrante durante il viaggio.
Il riferimento resta vivace, pronto e spendibile, anche se si sente che è di un altro tempo. Anzi, questo diventa uno dei suoi caratteri — c’è un che di nonnesco, nella scelta di questo termine. Dopotutto, dall’ultimo film su Maciste sono passati più di sessant’anni. E badiamo, le alternative possono essere del tutto analoghe, da Sansone allo stesso Ercole — che a ben vedere sarebbero ancor più di un altro tempo. Però l’antichità diventa classica e aulica: possono passare i millenni, ma per la nostra umana prospettiva niente, nel bene e nel male, è più affettuosamente antiquato della lingua della nostra nonna.
Dietro a questo nome, di popolarità vasta e rétro, s’intrecciano storie di cultura alta e bassa.
Chiariamo il campo in cui ci muoveremo: stiamo parlando di un personaggio cinematografico che si distingue per essere fortissimo e buono, e che quindi per antonomasia diventa l’omone di grande forza.
Nel 1914 uscì in Italia un film dalla grande e lunga fama, un kolossal del cinema muto: Cabiria. È un polpettone di oltre tre ore, avventuroso e romantico, storico e drammatico, con scenografie grandiose e mirabolanti effetti speciali — ambientato nell’antichità, durante la Seconda guerra punica. Fra i consulenti del regista, Giovanni Pastrone, ci fu anche Gabriele D’Annunzio, che per difendere il suo stile di vita da monarca francese talvolta si abbassava a lavorare; in particolare per questo film curò le magniloquenti didascalie (film muto, ricordiamo) e inventò i nomi dei personaggi. Quello di Cabiria (la giovane protagonista) sarebbe diventato celebre insieme al film e non oltre; quello di Maciste, ricavato dal greco mákistos, ‘il più grande’, avrebbe avuto una fortuna straordinaria. L’ennesimo conio di D’Annunzio che continuiamo a usare comunemente.
Maciste, diciamo la verità, non è un personaggio di grandi complessità. È l’integerrimo servo di Fulvio Axilla, romanissimo, buono coi buoni e spietato coi cattivi, senza afflati intellettuali, ed è il fulcro di azioni memorabili che girano intorno alla sua forza sovrumana — fra cui la liberazione di una Cabiria bambina dall’altare di Moloch su cui sta per essere sacrificata, precipitando sacerdoti e armigeri giù dal tempio e su bracieri ardenti, e la rocambolesca fuga di prigione, da cui evade piegando le sbarre della cella.
In Cabiria la sua figura spiccò. Tanto che seguì una valanga di spin-off con Maciste protagonista. Quelli degli anni ‘20 lo videro interpretato dallo stesso attore che l’interpretò in Cabiria, il genovese Bartolomeo Pagano, ex camallo del porto; ma ci fu un ritorno di successo negli anni ‘60, quando furono girate almeno altre due dozzine di film su Maciste.
Non che siano stati tutti quanti capolavori, anzi; possiamo ricordare Maciste medium, Maciste in vacanza, Maciste contro il vampiro, Totò contro Maciste, Zorro contro Maciste (il fondo del barile fu ampiamente grattato — scherzandoci su, Nanni Moretti ne Il caimano cita anche un falso Maciste contro Freud). Di certo però la figura divenne popolare come poche altre — un Ercole senza quarti di nobiltà, senza sottotesti e significati mitici. Un semplice uomo grosso e forte. Così…
Posso parlare di come non servisse un maciste, per spostare quei mobili, anche se una mano mi avrebbe fatto comodo; posso parlare di come la solita soluzione da maciste, che non si perde in grandi raffinatezze, stavolta abbia un suo senso; posso parlare del maciste che mi si siede accanto in treno, molto gentile nel riporre le valigie di tutti anche se ingombrante durante il viaggio.
Il riferimento resta vivace, pronto e spendibile, anche se si sente che è di un altro tempo. Anzi, questo diventa uno dei suoi caratteri — c’è un che di nonnesco, nella scelta di questo termine. Dopotutto, dall’ultimo film su Maciste sono passati più di sessant’anni. E badiamo, le alternative possono essere del tutto analoghe, da Sansone allo stesso Ercole — che a ben vedere sarebbero ancor più di un altro tempo. Però l’antichità diventa classica e aulica: possono passare i millenni, ma per la nostra umana prospettiva niente, nel bene e nel male, è più affettuosamente antiquato della lingua della nostra nonna.