Rabbino

rab-bì-no

Significato Capo spirituale di una comunità ebraica, dottore della legge ebraica, la cui figura ricopre anche cariche di rappresentanza

Etimologia dall’ebraico rabbī, che significa ‘grande’ ma anche inteso come ‘maestro’, proveniente da una radice semitica trilittera r – b – b.

Nelle lingue semitiche la radice trilittera r - b - b è associata ad una figura di prestigio, che sia un signore (in arabo rabba è un verbo che significa ‘possedere’, ‘essere il capo, il governatore’ ed è utilizzato spesso per parlare di Dio) o un sapiente maestro (appunto rabbī in ebraico). Anticamente si utilizzava questa parola per rivolgersi ad un superiore, ad un anziano, a qualcuno che nella scala sociale si trovava ad un livello superiore rispetto al parlante e a chiunque avesse insegnato qualcosa a qualcuno.

Quest’ultima accezione è di grande importanza se si prende in considerazione la storia del popolo d’Israele e la diaspora in particolare. La perdita della patria, della terra che era stata promessa, lo spargersi di questo popolo tra oriente e occidente come una manciata di semi in un campo, han fatto sì che lo studio della legge ebraica e delle tradizioni, e di conseguenza il conservare, il tramandare, l’insegnare quel patrimonio culturale e identitario diventasse una missione urgente, una vocazione totalizzante, un’attività prioritaria alla quale la comunità conferiva grande prestigio e portava profondo rispetto. Come se lo studio e l’insegnamento della legge fossero diventati non solo un ‘cosa’, ma anche un ‘dove’: un surrogato di terra, una direzione, un porto sicuro in cui trovare riparo tra le tempeste delle persecuzioni e delle migrazioni coatte.

Rabbino, dunque, come sapiente maestro. Ogni maestro, per esser tale, ha bisogno di discepoli che lo seguano e che apprendano da lui (dal latino discere, ovvero ‘imparare’). Se questa cosa vi fa balenare in testa Gesù e i dodici apostoli, allora siete sulla buona strada: quante volte, nei vangeli, i dodici si rivolgono a lui chiamandolo ‘rabbì’, ‘maestro’?

I rabbini che conosciamo noi oggi sono i discendenti ultimi di una grande famiglia di sapienti che nel corso del tempo ha incluso i Giudici del Libro dei Giudici (shofetìm), i Saggi della Grande Assemblea, i membri del Sinedrio e molti altri grazie ai quali nei secoli si è costruito quel formidabile, multiforme e affascinante corpus che è il Talmud (letteralmente ‘studio’). Sono anche personaggi un po’ pop, forse grazie al proverbiale senso dell’umorismo ebraico; basti pensare all’assurda triade rabbinica rappresentata nel film dei fratelli Cohen “A serious man” («Il rabbino è occupato, sta pensando»), o al film di Woddy Allen “Prendi i soldi e scappa”, del 1969, in cui il protagonista, un delinquente che vive mille peripezie tra prigioni e rapine finite male, accetta di far da cavia per la sperimentazione di un farmaco in cambio della libertà vigilata: non incorre in alcun effetto collaterale a parte quello di diventare un (noioso) rabbino per qualche ora.

Un’ultima precisazione: il rabbino non deve essere confuso con il sacerdote, nell’ebraismo. I sacerdoti, infatti, si chiamano kohanim, plurale di kohen. Sì, non è un caso che uno dei cognomi ebraici più diffusi sia proprio Cohen. Ma questa è un’altra storia.

Parola pubblicata il 31 Gennaio 2020

Parole semitiche - con Maria Costanza Boldrini

Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.