Stoviglie
sto-vì-glia
Significato Insieme di piatti, vasellame e recipienti usati in cucina e a tavola per servire le vivande
Etimologia incrocio del latino medievale usitilia, alterazione del classico utensilia ‘ciò che è utile ai bisogni’, e usibilia ‘materiali d’uso’, derivato di uti ‘usare’.
Parola pubblicata il 20 Febbraio 2017
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Quello delle stoviglie è un insieme che ci è particolarmente consueto: la stessa etimologia ce lo presenta come un incrocio di concetti che vertono sull’utilità, dando alle stoviglie che conosciamo oggi l’aura di una presenza costante, domestica - quali sono i bisogni a cui rispondono.
Per la precisione, sono stoviglie tutti quei recipienti, diversi per materiale (dalla ceramica al vetro al metallo) e per forma (dai piatti alle ciotole ai bicchieri) che sono usati, fra cucina e tavola, per servire le libagioni. È una parola normale, è una parola amica.
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(Guido Gozzano, La signorina Felicita, vv. 7-18)
E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere […]
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Gozzano è un autore relativamente poco noto, ma di rilievo: il disincanto, l’ironia e la parodia della tradizione anticipano importanti sviluppi della letteratura successiva. Tuttavia, siccome non sono un critico letterario, posso dire che non è questo il motivo per cui Gozzano mi piace. Il vero motivo è che mi fa una tenerezza immensa.
È un giovane brillante, dalla promettente carriera; poi, a ventiquattro anni, gli viene diagnosticata la tisi, e a trentadue muore. Insomma passa otto anni con l’ombra della morte sulla testa, guardando il tempo correre via.
Così, per difendersi, cerca di ridurre i suoi desideri ai minimi termini. Le attività umane sono vane, gli ideali vuoti; meglio allora rifugiarsi nella letteratura, lontano da tutto e da tutti. L’anima si inaridisce, forse; ma, se non ama, non soffre.
Peccato che al cuore questo non basti. E lo vediamo bene in questa poesia, in cui Gozzano immagina di incontrare «la Signorina Felicita», la sua personale immagine della felicità. È una donna di campagna, sana e serena, l’emblema di ciò che lui non potrà mai avere. Ed è una donna «quasi brutta», che rompe tutti i cliché letterari: ha una bocca «vermiglia» ma «larga», abituata a risa e bevute. I suoi occhi sono azzurri come una «stoviglia», e per di più sono «fermi», privi di profondità intellettuale.
L’aulico, quindi, cozza comicamente con il volgare; ma, al di là del gioco parodistico, c’è un desiderio vero.
Gozzano può ironizzare quanto gli pare: in fondo ciò che desidera è un amore sincero, che gli faccia sentire di valere qualcosa. Vuole appartenere a una persona, a un luogo; e vuole gustare la vita nelle sue gioie più piccole e concrete.
Tutti gli uomini vogliono essere felici, non si scappa. E Gozzano, nel suo tono scanzonato, ci sta facendo una domanda molto seria. Dov’è, caro lettore, la tua signorina Felicita?