Verone
ve-ró-ne
Significato Balcone, terrazzo, loggia
Etimologia incerto, forse da vera.
Parola pubblicata il 06 Gennaio 2024
ve-ró-ne
Significato Balcone, terrazzo, loggia
Etimologia incerto, forse da vera.
Parola pubblicata il 06 Gennaio 2024
Affare delicato, delicatissimo — un po’ mondano in effetti, un po’ fatuo, ma non meno delicato, e non meno ricco di prospettiva storica. Come chiamare quella cosa lì, quella superficie che è esterna senza esserlo, pavimentata, sopraelevata, che sporge da un edificio, o che è sopra un edificio, o che gli vaneggia su un fianco, sorretta da colonne?
Certo queste sono molte cose diverse, ma si tratta sempre di una categoria ariosa di affacci, di belvederi che fanno dialogare il dentro e il fuori di un’architettura al di sopra del livello del suolo, che muovono il modo in cui l’abitiamo, e che mettono a disposizione posti ameni in cui spaziare all’aria e con lo sguardo. Dal terrazzino dell’appartamento che dà sul cortile interno fino all’altana del palazzo che domina la città, è un genere di elemento ricorrente che con le sue virtù calamita la nostra attenzione. E proprio in questi casi, sappiamo, il bisogno di parole si fa vorace: l’inseguimento dell’atmosfera, della descrizione, del sentimento — per ordinari fini narrativi o per altrettanto ordinari fini immobiliari — è nientemeno che rapace.
In quanto a nobiltà, abbiamo le vette di altane sopraelevate e logge prospicienti (queste di origine germanica, la voce francone ricostruita come laubja vale ‘pergola’): si trovano solo in immobili straordinari — e figuriamoci le gallerie. Il balcone (longobardo, ricostruito come balko) ha una dimensione di normalità ed è molto messo a fuoco: è una superficie praticabile che sporge dal muro esterno e ha un parapetto. Ciò nondimeno può anche essere di pregio (anzi ha una morbidezza piuttosto fine, anche a dispetto di quell’accrescitivo un po’ sbavato). Terrazzo (o terrazza) hanno declinazioni normalissime o straordinarie: da un lato quel suffisso -azzo non gli leva di dosso un tratto poco elegante, dall’altro è in effetti frutto dell’adattamento del francese terrasse, che conferisce una contrapposta eleganza. Così il terrazzo si trova nell’appartamento come bel quid pluris, bel qualcosa-in-più — ma la vasta terrazza dell’albergo è teatro di aperitivi eleganti (oggi spesso si dice in inglese rooftop, alla lettera ‘cima del tetto’, però in una frase in italiano suona come il mio cane ai ciclisti), senza contare le innumerevoli terrazze panoramiche che costellano le città e i loro dintorni.
Il verone — finalmente ci arriviamo ma capite, era necessario un giro da Uomo ragno fra tetti e facciate — è un affaccio meno definito. Ma beninteso, meno definito nella forma concreta, perché invece nel tono e nel tenore di spazio che indica è alto e ricercato — anche se come vedremo non implica affettazione e sussiego. Può essere inteso come un balcone, perfino un terrazzino; ma è anche (e forse soprattutto) un terrazzo scoperto, un grande balcone, o perfino una loggia. L’etimologia del suo nome non ci aiuta quasi per nulla: l’unica ipotesi, incerta, è che derivi da vera, il parapetto ad anello intorno alla bocca del pozzo, (voce di matrice veneziana). Con una bella estensione, l’affaccio al pozzo si farebbe affaccio dall’alto — ma per vari motivi è una ricostruzione criticata.
Peraltro, il verone può anche essere il pianerottolo coperto in cima a delle scale esterne che salgono lungo il muro, anch’esso dotato di parapetto. Il profilo è più rustico (letteralmente, è spesso trovato nelle case di campagna), ma chiamarlo ‘verone’ trasmette una bella sensazione di cura.
Così se parlo degli amici che passano la festa al verone, a ragionare in penombre fumose, se parlo della gente del paese sempre al verone a guardare chi passa dabbasso, se parlo della vista che si gode dal magnifico verone del palazzo, sto evocando, con efficaci contorni indefiniti, un genere intero di affacci, marcando solo la premura che ho nel nominarli.
Per chiudere, possiamo apprezzare proprio questo carattere alto e indefinito del verone in una poesia che ha un pugno di versi molto famosi, ma piuttosto sconosciuta nel resto e nell’autore. È L’ultima ora di Venezia, di Arnaldo Fusinato, bel componimento con un insolito metro quinario che alterna versi sdruccioli e piani: «È fosco l'aere, / Il cielo è muto, / Ed io sul tacito / Veron seduto, / In solitaria / Malinconia / Ti guardo e lagrimo, / Venezia mia!» Proseguendo arriva anche «Il morbo infuria, / Il pan ci manca, / Sul ponte sventola / Bandiera bianca!», che citerà anche Battiato.