SignificatoPersona che adegua la propria identità in rispondenza alle persone e alle situazioni circostanti; trasformista; teatro di cabaret
Etimologia dal nome di Leonard Zelig, protagonista di Zelig, film di Woody Allen del 1983.
Questa è una parola che ci dice molto su come funziona e quanto sia mobile il successo delle parole.
‘Zelig’, prima di essere un nome comune, è un nome proprio; in particolare è un cognome ebraico — in yiddish significa ‘benedetto’. Però ha preso la sostanza di un’antonomasia grazie all’omonimo film di Woody Allen del 1983.
In questa commedia (un documentario fittizio) il protagonista è Leonard Zelig, un uomo che ha la particolarità patologica di adattarsi irresistibilmente alle persone con cui si trova: incontrollabilmente camaleontico, si comporta da psichiatra in presenza di psichiatri, con francesi affetta lingua mode e modi francesi — e nel paradosso comico riesce perfino a confondersi fra etnie differenti. Una psichiatra cercherà di far luce sulla condizione di Zelig, ma non scendiamo nella trama.
L’antonomasia che ne scaturisce fa dello o della zelig una persona che si adegua mutevolmente alle persone che ha davanti, alle situazioni che vive — non in un adattamento equilibrato e presente, ma in un trasformismo irriflesso, volto a rispondere al contesto.
Un problema di quest’antonomasia (che si trova registrata nei dizionari, e probabilmente volta a una rapida obsolescenza) è che offre un significato non solo estremamente specifico, ma anche specificamente estremo: non a caso nasce nel paradosso comico. Tanto che dà poco gioco, poco spazio di trovata, per quanto sia incisiva.
Ad esempio si potrebbe parlare dell’amica zelig che mentre è con noi, come sempre, all’apparire di amici suoi di un altro gruppo cambia radicalmente modo di parlare e di muoversi, o del praticante zelig che di volta in volta, totalizzato, echeggia i gesti posati dei soci dello studio e quelli più ruvidi dei colleghi da cui vuole farsi benvolere. Qua e là si sono apprezzate estensioni di significato improprie, che non raccontano un’identità crepata che si riplasma, e però almeno vitali; ad esempio quando si parla dello zelig che ha truffato un intero rione spacciandosi per caldaista, per amico del figlio, per carabiniere. Forse termini meno intessuti di patologia e più immaginifici, come il trasformista stesso e il camaleonte, sono risorse più spendibili, in questa zona di significati.
Se questo zelig internazionale ha avuto un successo diretto piuttosto contenuto, in italiano, il nome del film di Allen ha però fruttato in Italia in altro modo: nel 1986 aprì a Milano quello che sarebbe diventato il più famoso teatro di cabaret d’Italia — lo Zelig, appunto, che omaggia il film di Allen. Il successo anche televisivo conquistato nei decenni successivi ha reso zelig (con un’antonomasia cadetta) un nome relativamente corrente per significare proprio ‘teatro comico, di cabaret’, sia in senso proprio sia figurato. Si può parlare del nuovo zelig che ha aperto in città, leggere l’aspra osservazione di chi dice che il tal processo ormai è uno zelig, o parlare di come lo sportello di assistenza ai clienti sia uno zelig naturale.
Questa è una parola che ci dice molto su come funziona e quanto sia mobile il successo delle parole.
‘Zelig’, prima di essere un nome comune, è un nome proprio; in particolare è un cognome ebraico — in yiddish significa ‘benedetto’. Però ha preso la sostanza di un’antonomasia grazie all’omonimo film di Woody Allen del 1983.
In questa commedia (un documentario fittizio) il protagonista è Leonard Zelig, un uomo che ha la particolarità patologica di adattarsi irresistibilmente alle persone con cui si trova: incontrollabilmente camaleontico, si comporta da psichiatra in presenza di psichiatri, con francesi affetta lingua mode e modi francesi — e nel paradosso comico riesce perfino a confondersi fra etnie differenti. Una psichiatra cercherà di far luce sulla condizione di Zelig, ma non scendiamo nella trama.
L’antonomasia che ne scaturisce fa dello o della zelig una persona che si adegua mutevolmente alle persone che ha davanti, alle situazioni che vive — non in un adattamento equilibrato e presente, ma in un trasformismo irriflesso, volto a rispondere al contesto.
Un problema di quest’antonomasia (che si trova registrata nei dizionari, e probabilmente volta a una rapida obsolescenza) è che offre un significato non solo estremamente specifico, ma anche specificamente estremo: non a caso nasce nel paradosso comico. Tanto che dà poco gioco, poco spazio di trovata, per quanto sia incisiva.
Ad esempio si potrebbe parlare dell’amica zelig che mentre è con noi, come sempre, all’apparire di amici suoi di un altro gruppo cambia radicalmente modo di parlare e di muoversi, o del praticante zelig che di volta in volta, totalizzato, echeggia i gesti posati dei soci dello studio e quelli più ruvidi dei colleghi da cui vuole farsi benvolere. Qua e là si sono apprezzate estensioni di significato improprie, che non raccontano un’identità crepata che si riplasma, e però almeno vitali; ad esempio quando si parla dello zelig che ha truffato un intero rione spacciandosi per caldaista, per amico del figlio, per carabiniere. Forse termini meno intessuti di patologia e più immaginifici, come il trasformista stesso e il camaleonte, sono risorse più spendibili, in questa zona di significati.
Se questo zelig internazionale ha avuto un successo diretto piuttosto contenuto, in italiano, il nome del film di Allen ha però fruttato in Italia in altro modo: nel 1986 aprì a Milano quello che sarebbe diventato il più famoso teatro di cabaret d’Italia — lo Zelig, appunto, che omaggia il film di Allen. Il successo anche televisivo conquistato nei decenni successivi ha reso zelig (con un’antonomasia cadetta) un nome relativamente corrente per significare proprio ‘teatro comico, di cabaret’, sia in senso proprio sia figurato. Si può parlare del nuovo zelig che ha aperto in città, leggere l’aspra osservazione di chi dice che il tal processo ormai è uno zelig, o parlare di come lo sportello di assistenza ai clienti sia uno zelig naturale.