> Le famiglie delle parole

5 titoli di sovrani e gerarchi del Medio Oriente

Che differenza c’è tra un califfo e un re? Chi sono gli emiri e i sultani? Che fine hanno fatto i nababbi? Scopriamo insieme i significati dei titoli onorifici mediorientali che sono entrati a far parte del nostro linguaggio, e la loro interessante storia

L’attualità internazionale porta spesso sui nostri canali di informazione parole di origine araba dal significato molto preciso ma di cui può essere difficile comprendere i contorni e le implicazioni se non ne si conosce la storia e il senso originari: imam, ramadan, califfato…
Quando prendiamo il planisfero politico, invece, incontriamo nomi che si credevano appartenere solo ad un passato lontano e favolistico: emirati, sultanati… Ma come? Ancora esistono i sultani?

Approfondire alcune parole come i titoli di gerarchia può far capire meglio la lunga e complessa storia dei popoli arabi. Sebbene questi nomi non siano paragonabili ai titoli della nobiltà occidentale come concetto e ragion d’essere, la loro antichità non è minore, così come la loro attualità.

Califfo — Il profeta ebbe vicari, non eredi

Califfo, ad esempio, è un titolo che è stato dato sin dalla morte del profeta Maometto, nel 632 d.C., ai suoi ‘successori’. Non si tratta di figli del profeta, né tantomeno di eredi scelti da lui, ma di ‘vicari’, di persone che ‘ne fecero le veci’ come capi della comunità dal momento della sua assenza.

Califfo in arabo si dice khalīfa e viene dal verbo khalafa, che ha come primo significato quello di ‘succedere’, ‘subentrare’. Non è una carica religiosa, bensì politica: il califfo è il capo dello stato, la massima autorità, perciò è bene non semplificarne la definizione in modo goffo considerandolo come ‘il papa del mondo musulmano’, perché facendo ciò, oltre a non definire bene la figura del califfo, si snatura completamente anche quella del papa. Nella storia si sono succeduti molti califfati, capeggiati da varie dinastie (quella omayyade e quella abbaside sono le più importanti).

Emiro — Re, regine, principi e principesse

Qualcosa però non torna: se il califfo è il capo supremo, perché non si chiama re?
In effetti, re, che in arabo si dice malik, è un attributo di Dio. La radice da cui proviene questa parola, m – l - k, parla di possesso, di regno, di dominio.

Il termine è usato tutt’ora per designare i re di paesi come la Giordania e il Marocco, ma storicamente è una carica inferiore al califfo, che poteva essere attribuita ai sovrani di nazioni non musulmane o ai capi dei regni che si formarono dopo il crollo del grande califfato abbaside, nel XIII secolo.

Dunque, se c’è un re, ci sarà per forza anche un principe. D’altra parte, i famosi emirati non sono forse dei principati, come quello di Monte Carlo? Andiamo a vedere l’origine: il verbo da cui proviene la parola emiro è amara, che in arabo significa ‘comandare’ ed ha un’accezione militare (da qui anche l'ammiraglio). L’emiro era il comandante in capo, il condottiero delle forze armate. Col tempo questo titolo è stato attribuito anche ai governatori, ai leader di piccoli stati, forse perché la capacità di comandare gli eserciti e di gestire il potere militare in maniera efficace era qualità imprescindibile del buon capo di stato. 

L’accezione di principe come la intendiamo noi è un’evoluzione moderna del titolo: ecco perché Husayn ibn 'Abd Allah, figlio ed erede del re di Giordania e della regina (malika) Rania, ha il titolo di amīr e la celeberrima opera di Niccolò Machiavelli ‘Il principe’ è tradotta nel mondo arabo come ‘Kitāb al-Amīr’, letteralmente ‘il libro del principe’.

Sultano — Oltre la Sublime Porta

Ed ora ci accingiamo ad oltrepassare la Sublime Porta del palazzo di Topkapı per arrivare al cospetto nientemeno che del sultano dell’impero ottomano. I più celebri, infatti, furono quelli che regnarono a Istanbul fino al 1922, ma ancora oggi se ne trovano sui troni del Brunei, dell’Oman, dell’Indonesia e altri paesi molto piccoli. Sultano è una parola che ci fa subito pensare a baffuti sovrani adagiati pigramente su tappeti elaboratissimi mentre mangiano da ciotole piene di datteri zuccherini, adornati di gioielli luccicanti e turbanti damascati, complici l’arte orientalista e la nostra immaginazione.

Essa deriva dall’arabo sulṭān ed il campo semantico a cui si lega è quello del potere e dell’autorità. Inizialmente era un grado subordinato a quello di califfo, così come si è detto per malik e per amir, ma, sempre con la caduta dei grandi califfati, prese via via maggiore campo fino a diventare il titolo ufficiale del capo del grande impero ottomano.

Visir — Ad ogni sovrano il suo consigliere

Nell’antichità i sovrani si circondavano di consiglieri (buoni e cattivi), oggi ci sono i ministri. La parola, però, è la stessa: wazīr, spesso resa in italiano con ‘visir (i vari Gran Visir ne ‘Le mille e una notte’ ne sono begli esempi). È un lemma la cui etimologia è dibattuta: potrebbe derivare dal persiano vazīr, ‘persona che decide, che sceglie’ e quindi ‘giudice, arbitro’. D’altra parte, molte parole persiane furono assimilate nel vocabolario arabo. Ma c’è anche la tesi, molto accreditata, che vuole wazīr derivare dal verbo arabo wāzara, che significa ‘sostenere qualcuno, assistere, aiutare’. Entrambe sembrano valide, ma agli accademici l’ardua sentenza!

Nababbo — La ricchezza del funzionario imperiale

Concludiamo con un titolo che, ahinoi, non esiste più, ma la cui ricchezza è diventata proverbiale: il nababbo. Una parola davvero eufonica! In italiano ci è finita per le vie del colonialismo: attraverso francese e inglese possiamo risalire all’urdu nawwāb per poi approdare all'arabo nuwwāb. Questa parola è il plurale di nā'ib che significa ‘vice’: era un titolo attribuito ai funzionari dell’impero Moghul dell’India, che poi col tempo passò ad indicare i principi dei regni indiani musulmani.

Uno potrà chiedersi giustamente perché un ‘vice’ sia diventato antonomasia di dovizia. La risposta è semplice e chiama in causa la fantasia di tutti noi: dai titoli esotici si è sempre promanata un’aura di mistero che ha solleticato l’immaginario collettivo. La parola nababbo, con la sua rotondità di suono che evoca in modo così fiorito la rotondità di monete, di perle e di pance ben satolle, unita alla sua nebulosa provenienza orientale avvolta di fumi di incenso, ha avuto la strada spianata, nel nostro parlare, verso la ricchezza e l’opulenza più smodate.


Abbiamo parlato di figure che si collocano dall'India fino al Marocco: per avere un'idea più chiara di che cosa s'intende con questo strano 'Medio Oriente', che è poco medio e non tutto orientale orientale, leggi l'articolo sui nomi geografici dell'Oriente!

Commenti