Proprio quando una parola ha un sacco di sinonimi si riesce a coglierne meglio i caratteri distintivi. ‘Acme’ è un termine che vive un meraviglioso equilibrio fra essere ricercato ed essere corrente — e questo lo rende una risorsa particolarmente interessante: quando usarlo?
Si tratta di un grecismo recuperato in epoca moderna, e in diverse lingue europee (i grecismi spesso hanno una vocazione internazionale), e ha un significato di semplicità affilata: l’acme è letteralmente la punta, il taglio. Ci conferisce questo significato allacciandosi in maniera diretta e potente a una radice indoeuropea delle più brillanti e ramificate — la ricostruita ak-, proprio col significato di punta, filo.
Già in greco antico questo significato concreto si declina in quello figurato di colmo, di massimo, di più alto grado. E in italiano viene recuperato col primo riferimento alla fase acuta di una malattia, al momento della sua massima gravità; ma diventa in genere la fase culminante, piena (anche splendida, nel caso) di uno sviluppo.
Così posso parlare dell’acme di un’antica civiltà, dell’acme della tensione durante il film, dell’acme di una passione amorosa. Certo, se parlassi dell’apogeo della civiltà, del culmine della tensione, del massimo di una passione, non denoterei qualcosa di diverso. La peculiarità dell’acme sta esattamente nell’affilata, rotta durezza della sua successione fonetica. In pratica non ci sono altre nostre parole che contengano un simile ‘cm’; e se apogei e culmini si allargano in una certa magniloquenza, se massimi e colmi faticano ad essere icastici, se punte e sommità non si scrollano un profilo orografico di montagna, l’acme spicca, acuto, acuminato, concentrato in un punto tagliente — sommamente importante, su cui tutto converge, ma significato in maniera spartana.
Una questione di nobiltà di natali, certo, ma anche e soprattutto di suono. Spesso cerchiamo di superare le morbidezze della nostra lingua e del suo fusto latino quando vogliamo rappresentare altezze vertiginose sopra la testa, nette e appuntite e dure, significate nei nostri discorsi figurati. E forse è così che ci facciamo fascinare dalle forme astronomiche dello zenit, da quelle commerciali del top, così come dal taglio appuntito dell’acme.
Proprio quando una parola ha un sacco di sinonimi si riesce a coglierne meglio i caratteri distintivi. ‘Acme’ è un termine che vive un meraviglioso equilibrio fra essere ricercato ed essere corrente — e questo lo rende una risorsa particolarmente interessante: quando usarlo?
Si tratta di un grecismo recuperato in epoca moderna, e in diverse lingue europee (i grecismi spesso hanno una vocazione internazionale), e ha un significato di semplicità affilata: l’acme è letteralmente la punta, il taglio. Ci conferisce questo significato allacciandosi in maniera diretta e potente a una radice indoeuropea delle più brillanti e ramificate — la ricostruita ak-, proprio col significato di punta, filo.
Già in greco antico questo significato concreto si declina in quello figurato di colmo, di massimo, di più alto grado. E in italiano viene recuperato col primo riferimento alla fase acuta di una malattia, al momento della sua massima gravità; ma diventa in genere la fase culminante, piena (anche splendida, nel caso) di uno sviluppo.
Così posso parlare dell’acme di un’antica civiltà, dell’acme della tensione durante il film, dell’acme di una passione amorosa. Certo, se parlassi dell’apogeo della civiltà, del culmine della tensione, del massimo di una passione, non denoterei qualcosa di diverso. La peculiarità dell’acme sta esattamente nell’affilata, rotta durezza della sua successione fonetica. In pratica non ci sono altre nostre parole che contengano un simile ‘cm’; e se apogei e culmini si allargano in una certa magniloquenza, se massimi e colmi faticano ad essere icastici, se punte e sommità non si scrollano un profilo orografico di montagna, l’acme spicca, acuto, acuminato, concentrato in un punto tagliente — sommamente importante, su cui tutto converge, ma significato in maniera spartana.
Una questione di nobiltà di natali, certo, ma anche e soprattutto di suono. Spesso cerchiamo di superare le morbidezze della nostra lingua e del suo fusto latino quando vogliamo rappresentare altezze vertiginose sopra la testa, nette e appuntite e dure, significate nei nostri discorsi figurati. E forse è così che ci facciamo fascinare dalle forme astronomiche dello zenit, da quelle commerciali del top, così come dal taglio appuntito dell’acme.