Roba

rò-ba

Significato Ogni oggetto o insieme di oggetti; lavoro, affare; abito; merce; stupefacente; mezzi di sostentamento

Etimologia dalla voce germanica occidentale ricostruita come rauba ‘bottino, vestito’.

  • «Ma che roba è?»

La Storia, quella grande e collettiva e millenaria sta sempre lì, sotto al pelo delle parole — e alcune a guardarci dentro sono vertiginose. Certo, magari sono anche così anonime che non solo a nessuno viene la curiosità di guardarci dentro, ma che riescono a trovare albergo solo nei discorsi spicci e colloquiali, oltremodo dimesse, quasi invisibili. Eppure, se le fermiamo un momento, giusto il tempo di una piccola lettura mattutina, hanno molto da raccontare.

La roba è tutto, praticamente qualsiasi cosa, collettiva o no. La sfocatura di concetto è massima.
La soffitta è piena di roba. In salotto ci sono due sacchi con della roba, di chi sono? Ce ne hanno di roba buona, in quella trattoria. Se ho letto l’ultimo di… no, non leggo quella roba. Di che roba è fatto questo bracciale? Ho visto il film che mi dicevi, tanta roba! È roba cara ma vale. E (guardando intorno circospetto) chi ce l’ha la roba? Macché, si è giocato tutta la roba che aveva. Non è roba che ti riguardi. Tranquilla, la roba non le manca. E roba mia, vientene con me!
Da considerare anche il robo, ancora più informale e colloquiale, con cui si marca una singolarità di roba — che cos’è questo robo che mi hai passato?

Ora, com’è che la lingua ha messo a punto una parola così evanescente e ubiqua — in grado di pareggiare con la cosa? Dobbiamo tornare abbastanza indietro nel tempo: è un prestito germanico del medioevo, di quelli che sono entrati nella lingua italiana durante la metamorfosi dal latino.

Una delle beghe delle lingue germaniche è che per la maggior parte non sono state scritte per lungo tempo, quindi c’è tanto da dover ricostruire. In particolare, nel ramo germanico occidentale, si ricostruisce in ipotesi la voce rauba, con un doppio interessante significato: bottino e vestiti. Aggiungiamo anche che, chi ha studiato stadi ancora precedenti, ricollega la voce proto-germanica rauba a un ipotetico reufan, col significato di ‘rompere’, che da una medesima origine proto-indoeuropea sarebbe cugino del rumpo latino, e quindi parente del ‘rompere’ stesso.

Bottino, dicevamo: e sì, è da questa pianta del rauba che viene anche il nostro verbo ‘rubare’ — e nella inimmaginabile semplicità della lingua, che vola come aquila sopra a qualunque singolo ingegno poetico, la roba è ciò che si ruba.
E che cosa si ruba, classicamente?

Qui si vede che il mondo è cambiato: il vestito era roba scarsa, e di valore. Anzi uno dei tratti più verticalmente distintivi della gente ricca erano proprio i capi di pregio.
La gente normale viveva nel grigiore di accessori e vesti prodotte da sé con poveri materiali, mentre il capo fine, di tessuto pregiato e colorato, o robusto e ben fatto, era uno degli oggetti più attraenti ed esotici da razziare, da aggiungere al bottino. Ma contiamo che al rauba, in particolare in lingua francone, oltre al significato di ‘vestito’ si collega quello di ‘armatura’ — ghiossittima preda. Anche se forse, dato che stiamo schiacciando secoli di storia in una singola considerazione, dobbiamo considerare che pure i vestiti semplici fossero un buon bottino. (Ancora Geppetto vende la sua vecchia casacca di fustagno tutta toppe e rimendi per comprare l’abbecedario a Pinocchio...)

Così, con tutta l’ingenuità e la violenza di un’antica miseria, il nome del bottino diventa il nome del vestito. E proseguendo sotto tutta l’evidenza della povertà, il vestito diventa tutta la roba, che per noi è così generale e proteiforme. E di cui gli abiti, variopinti, accatastati e dimenticati a dozzine negli armadi, non sono che una parte — e non quella che più temiamo ci sia rubata.

Parola pubblicata il 21 Settembre 2024