SignificatoFigura retorica che consiste nell’aggiunta di termini per coordinazione a una frase in sé già compiuta
Etimologia dal greco epiphrásis derivato di epiphrázein ‘dire inoltre’, derivato di phrázein ‘parlare’, col prefisso epì- ‘sopra’.
Siamo abituati ad apprezzare quanto le figure retoriche intessano il nostro parlare più schietto e popolino la nostra quotidianità; ma non è questo il caso. Siamo davanti a una figura retorica che non è di quelle che spontaneamente affollano i nostri discorsi: è decisamente retorica, nel senso che adombra un’arte nel dire — figura poetica e non solo. Ma non è nemmeno una di quelle macerate nella formalità più estetizzante, anzi ha un effetto sentimentale deciso. Osservarla ci permette di capire qualcosa di più sulla nostra immaginazione. Peraltro il suo nome, a dispetto dell’ascendenza greca, è attestato in italiano molto tardi, alla fine degli anni ‘60.
In sé è un fatto semplice: l’epifrasi è un’aggiunta a una frase in sé già del tutto compiuta, finita — un’aggiunta coordinata, cioè congiunta con una ‘e’. Cerchiamo la sua chiave in un esempio celebre, l’incipit de La sera del dì di festa di Lepoardi, che recita:
Dolce e chiara è la notte e senza vento […].
“Dolce e chiara è la notte” è una frase in sé già compiuta — ma le si aggiunge un “e senza vento”. Se la frase fosse stata “Dolce e chiara e senza vento è la notte” il risultato sarebbe stato tragicamente diverso e peggiore, e figuriamoci se si fosse trattato di un prosaico “La notte è dolce e chiara e senza vento”.
Si trova detto che l’epifrasi è una variante della più antipatica di tutte le figure retoriche, l’iperbato, cioè il rimescolamento delle parole nella frase cosicché parole strettamente legate sintatticamente si trovano separate. In effetti è una figura retorica che agisce sull’ordine delle parole nella frase, in modo tale che non abbia uno sviluppo piano, ma che si articoli fra nucleo e postilla.
La nostra osservazione del mondo non parte mai avendo già tutte le idee chiare e distinte. Com’è la notte?
Dolce
Chiara
Senza vento
Non funziona così. La nostra osservazione del mondo è resa linguisticamente con frasi che hanno una certa struttura abituale, ma l’epifrasi ci rende il fatto che osserviamo e riconosciamo i fili del mondo in ordini diversi da quelli della sintassi solita.
Il poeta riconosce un’atmosfera di dolcezza e chiarità: questo è ciò che sappiamo dapprima — e ciò che sa lui. È perché ci sta scrivendo che ci deve dire che questi attributi sono della notte — lui lo vede, lo sa, e ce lo dice infatti dopo “è la notte”, non è un punto che preme. Ma è tutto? No. Non c’è nemmeno vento. Quella che viene resa non è una struttura digerita e astratta di una frase di prosa: è una struttura d’immaginazione, resa solo in arte alta e in certi rari parlati. La retorica può insomma essere l’esatto contrario del libresco.
L’epifrasi crea già un primo nucleo immaginabile, su cui l’aggiunta si staglia, amplificando o magari correggendo. Il risultato non è un pastone d’ingredienti uguali: non è un “rigatoni peperoni e capperi e noci mantecati”, ma un “rigatoni peperoni e capperi mantecati e noci”. L’aggiunta dell’epifrasi crea uno spazio e un respiro tutto suo e lento.
Fuor di Leopardi (che pure è un fan sfegatato dell’epifrasi, e ne ha prodotte di famosissime — «sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe», «Io gli studi leggiadri / talor lasciando e le sudate carte») l’epifrasi si trova comunque in molti componimenti poetici e, come dicevamo, da poche altre parti. Parliamo e scriviamo su sentieri soliti, e certi fili dell’ordito delle frasi tendiamo a non spostarli.
Però potremmo riconoscere un’epifrasi quando raccontiamo di come ci siamo abbracciati quasi fosse l’ultima volta e baciati, della cagnolina che abbaia al cancello furiosamente e da dentro la siepe, del ricordo che ci fa piangere d’amore e sorridere.
Siamo abituati ad apprezzare quanto le figure retoriche intessano il nostro parlare più schietto e popolino la nostra quotidianità; ma non è questo il caso. Siamo davanti a una figura retorica che non è di quelle che spontaneamente affollano i nostri discorsi: è decisamente retorica, nel senso che adombra un’arte nel dire — figura poetica e non solo. Ma non è nemmeno una di quelle macerate nella formalità più estetizzante, anzi ha un effetto sentimentale deciso. Osservarla ci permette di capire qualcosa di più sulla nostra immaginazione. Peraltro il suo nome, a dispetto dell’ascendenza greca, è attestato in italiano molto tardi, alla fine degli anni ‘60.
In sé è un fatto semplice: l’epifrasi è un’aggiunta a una frase in sé già del tutto compiuta, finita — un’aggiunta coordinata, cioè congiunta con una ‘e’. Cerchiamo la sua chiave in un esempio celebre, l’incipit de La sera del dì di festa di Lepoardi, che recita:
“Dolce e chiara è la notte” è una frase in sé già compiuta — ma le si aggiunge un “e senza vento”. Se la frase fosse stata “Dolce e chiara e senza vento è la notte” il risultato sarebbe stato tragicamente diverso e peggiore, e figuriamoci se si fosse trattato di un prosaico “La notte è dolce e chiara e senza vento”.
Si trova detto che l’epifrasi è una variante della più antipatica di tutte le figure retoriche, l’iperbato, cioè il rimescolamento delle parole nella frase cosicché parole strettamente legate sintatticamente si trovano separate. In effetti è una figura retorica che agisce sull’ordine delle parole nella frase, in modo tale che non abbia uno sviluppo piano, ma che si articoli fra nucleo e postilla.
La nostra osservazione del mondo non parte mai avendo già tutte le idee chiare e distinte. Com’è la notte?
Non funziona così. La nostra osservazione del mondo è resa linguisticamente con frasi che hanno una certa struttura abituale, ma l’epifrasi ci rende il fatto che osserviamo e riconosciamo i fili del mondo in ordini diversi da quelli della sintassi solita.
Il poeta riconosce un’atmosfera di dolcezza e chiarità: questo è ciò che sappiamo dapprima — e ciò che sa lui. È perché ci sta scrivendo che ci deve dire che questi attributi sono della notte — lui lo vede, lo sa, e ce lo dice infatti dopo “è la notte”, non è un punto che preme. Ma è tutto? No. Non c’è nemmeno vento. Quella che viene resa non è una struttura digerita e astratta di una frase di prosa: è una struttura d’immaginazione, resa solo in arte alta e in certi rari parlati. La retorica può insomma essere l’esatto contrario del libresco.
L’epifrasi crea già un primo nucleo immaginabile, su cui l’aggiunta si staglia, amplificando o magari correggendo. Il risultato non è un pastone d’ingredienti uguali: non è un “rigatoni peperoni e capperi e noci mantecati”, ma un “rigatoni peperoni e capperi mantecati e noci”. L’aggiunta dell’epifrasi crea uno spazio e un respiro tutto suo e lento.
Fuor di Leopardi (che pure è un fan sfegatato dell’epifrasi, e ne ha prodotte di famosissime — «sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe», «Io gli studi leggiadri / talor lasciando e le sudate carte») l’epifrasi si trova comunque in molti componimenti poetici e, come dicevamo, da poche altre parti. Parliamo e scriviamo su sentieri soliti, e certi fili dell’ordito delle frasi tendiamo a non spostarli.
Però potremmo riconoscere un’epifrasi quando raccontiamo di come ci siamo abbracciati quasi fosse l’ultima volta e baciati, della cagnolina che abbaia al cancello furiosamente e da dentro la siepe, del ricordo che ci fa piangere d’amore e sorridere.