SignificatoTranquillità dell’animo ed equilibrio negli affetti, serenità, equilibrio spirituale
Etimologia voce dotta recuperata dal greco euthymía, da éuthymos ‘di buon animo’, composto di êu ‘bene’ e thymós ‘animo’.
È una parola che ci fa drizzare subito le orecchie. È evidentemente rara, ha il fascino immediato delle parole greche, e un significato positivo estremamente promettente.
Però va detto: a prima vista non ci dice gran che. Infatti il suo nucleo greco, thymós, proprio perché ha un significato centrale come ‘animo’ non ha mai avuto esiti pop — ad esempio il latino, alla bisogna, non lo ha preso in prestito, ma tradotto, come quando l’idea del greco megáthymos è stata ricalcata col latino magnanimus. Invece il prefissoideeu- è fra i più famosi della lingua greca — êu in greco significa ‘bene’. Siamo quindi davanti nientemeno che a un buon animo. Ma in che senso?
‘Buon animo’ è una dicitura un po’ estesotta, generica, sfocata — tanto che risulta poco utile, visto che non ha nemmeno l’urgenza di significare qualcosa di ostile e pericoloso come il suo perfetto contrario, il malanimo. Ma per fortuna la specificazione che rende l’eutimia un concetto singolare e netto c’è: è la serenità equilibrata, con una profondità che non è solo psicologica o morale, ma perfino spirituale.
In realtà, come forse abbiamo in mente, la filosofia classica ce l’aveva con questa sfera di significati: scuole intere s’imperniavano sull’osservazione e il controllo delle passioni, l’abbandono del dolore. Però altre parole che insistono sul punto, e che hanno avuto più risonanza in millenni di dibattiti, hanno toni decisamente radicali e non sempre… eu- — pensiamo all’atarassia, o alla stessa apatia, che da carattere di saggezza si fa indolenza, insensibilità, indifferenza.
L’eutimia non ci vuole parlare di passioni che vengono trascese, ma di serenità in equilibrio — un buon animo che si trova a suo agio a dirigere un’orchestra di sentimenti disciplinata. Beninteso, non è il fantasma dell’appagamento a tutto tondo che si prova finalmente al termine delle orge più caleidoscopiche e decadenti, quando ogni piacere è arrivato al fondo: è un equilibrio padrone, misurato, stabile, trasparente, compreso, e che rende saldo il mondo interiore. Potremmo dire che l’eutimia è tranquillità dell’animo ed equilibrio negli affetti — e in effetti Seneca, filosofo che spicca in queste dottrine, traduce il greco euthymía proprio con tranquillitas. In caso di scossoni, l’eutimia li sente e li regge.
In un modo piano che ha tutta l’aria di essere una buona notizia sulla dimensione dei nostri sentimenti, in psicologia l’eutimia corrisponde a uno stato d’animo neutrale.
Come accade alle parole rare, però, anche questa presenta qualche problema.
Gli stati d’animo, per poter popolare facilmente i nostri discorsi, devono figurare nella nostra immaginazione — e dei più comuni (come anche dei più conturbanti) abbiamo più figure. Quanti sono i profili di apatia, di serenità, di dolore, di euforia che abitano la nostra mente? L’eutimia, anche se affermiamo la sua precisione, non può contare su contorni troppo definiti, né su stuoli di casi che conosciamo, archiviamo e riconosciamo come stati di eutimia. Francamente ce la dobbiamo un po’ inventare, anzi la dobbiamo rodare ed esplorare — magari anche per capire quando è che siamo eutimici ed eutimiche.
Possiamo parlare dell’eutimia che l’amica ha mostrato alla scoperta della malattia, di come l’eutimia di un collega campisca un ambiente di lavoro alacre e disteso, del nonno ricordato come una roccia, e che era semplicemente eutimico.
È una parola recuperata nel Settecento, con la rinata passione per il greco classico, e ha trovato un suo spazio tecnico, anche se senza percolare nel discorso comune. Se vogliamo — se crediamo che sia importate individuare, raccontare (e quindi anche un po’ creare) il profilo di persone tranquille nell’animo ed equilibrate negli affetti, e magari nell’affermare questa come neutralità — l’eutimia è pronta a farsi scrivere, e a prendere forme d’immaginazione più precise.
(Per inciso finale, il greco thymós non pare etimologicamente collegato col timor latino: questo, che dà origine al nostro ‘timore’, deriva dal verbo timere, la cui etimologia è ad oggi imperscrutabile.)
È una parola che ci fa drizzare subito le orecchie. È evidentemente rara, ha il fascino immediato delle parole greche, e un significato positivo estremamente promettente.
Però va detto: a prima vista non ci dice gran che. Infatti il suo nucleo greco, thymós, proprio perché ha un significato centrale come ‘animo’ non ha mai avuto esiti pop — ad esempio il latino, alla bisogna, non lo ha preso in prestito, ma tradotto, come quando l’idea del greco megáthymos è stata ricalcata col latino magnanimus. Invece il prefissoide eu- è fra i più famosi della lingua greca — êu in greco significa ‘bene’. Siamo quindi davanti nientemeno che a un buon animo. Ma in che senso?
‘Buon animo’ è una dicitura un po’ estesotta, generica, sfocata — tanto che risulta poco utile, visto che non ha nemmeno l’urgenza di significare qualcosa di ostile e pericoloso come il suo perfetto contrario, il malanimo. Ma per fortuna la specificazione che rende l’eutimia un concetto singolare e netto c’è: è la serenità equilibrata, con una profondità che non è solo psicologica o morale, ma perfino spirituale.
In realtà, come forse abbiamo in mente, la filosofia classica ce l’aveva con questa sfera di significati: scuole intere s’imperniavano sull’osservazione e il controllo delle passioni, l’abbandono del dolore. Però altre parole che insistono sul punto, e che hanno avuto più risonanza in millenni di dibattiti, hanno toni decisamente radicali e non sempre… eu- — pensiamo all’atarassia, o alla stessa apatia, che da carattere di saggezza si fa indolenza, insensibilità, indifferenza.
L’eutimia non ci vuole parlare di passioni che vengono trascese, ma di serenità in equilibrio — un buon animo che si trova a suo agio a dirigere un’orchestra di sentimenti disciplinata. Beninteso, non è il fantasma dell’appagamento a tutto tondo che si prova finalmente al termine delle orge più caleidoscopiche e decadenti, quando ogni piacere è arrivato al fondo: è un equilibrio padrone, misurato, stabile, trasparente, compreso, e che rende saldo il mondo interiore. Potremmo dire che l’eutimia è tranquillità dell’animo ed equilibrio negli affetti — e in effetti Seneca, filosofo che spicca in queste dottrine, traduce il greco euthymía proprio con tranquillitas. In caso di scossoni, l’eutimia li sente e li regge.
In un modo piano che ha tutta l’aria di essere una buona notizia sulla dimensione dei nostri sentimenti, in psicologia l’eutimia corrisponde a uno stato d’animo neutrale.
Come accade alle parole rare, però, anche questa presenta qualche problema.
Gli stati d’animo, per poter popolare facilmente i nostri discorsi, devono figurare nella nostra immaginazione — e dei più comuni (come anche dei più conturbanti) abbiamo più figure. Quanti sono i profili di apatia, di serenità, di dolore, di euforia che abitano la nostra mente? L’eutimia, anche se affermiamo la sua precisione, non può contare su contorni troppo definiti, né su stuoli di casi che conosciamo, archiviamo e riconosciamo come stati di eutimia. Francamente ce la dobbiamo un po’ inventare, anzi la dobbiamo rodare ed esplorare — magari anche per capire quando è che siamo eutimici ed eutimiche.
Possiamo parlare dell’eutimia che l’amica ha mostrato alla scoperta della malattia, di come l’eutimia di un collega campisca un ambiente di lavoro alacre e disteso, del nonno ricordato come una roccia, e che era semplicemente eutimico.
È una parola recuperata nel Settecento, con la rinata passione per il greco classico, e ha trovato un suo spazio tecnico, anche se senza percolare nel discorso comune. Se vogliamo — se crediamo che sia importate individuare, raccontare (e quindi anche un po’ creare) il profilo di persone tranquille nell’animo ed equilibrate negli affetti, e magari nell’affermare questa come neutralità — l’eutimia è pronta a farsi scrivere, e a prendere forme d’immaginazione più precise.
(Per inciso finale, il greco thymós non pare etimologicamente collegato col timor latino: questo, che dà origine al nostro ‘timore’, deriva dal verbo timere, la cui etimologia è ad oggi imperscrutabile.)