Apatia
Le parole e le cose
a-pa-tì-a
Significato Nella filosofia stoica, principio etico d’indifferenza a tutto fuorché all’esercizio della virtù; indifferenza, inerzia, mancanza d’interesse per la vita
Etimologia voce dotta recuperata dal latino apathìa, prestito dal greco apâtheia ‘impassibilità’, derivato di páthos ‘passione’, con prefisso a- privativo.
Parola pubblicata il 22 Febbraio 2022
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Per noi, oggi, apatia non è certo una parola neutra, e meno che mai positiva: è indifferenza, profonda noia esistenziale; è l'orribile distacco dalla realtà di Meursault, il protagonista dello Straniero di Camus, incapace di provare alcun sentimento per sua madre appena morta e per l'uomo che ha assassinato senza neanche saper bene perché. Sembra incredibile, perciò, che in filosofia essa abbia potuto essere rivendicata come valore, associata ad un senso di appartenenza, di armonia col tutto, e persino resa funzionale ad una partecipazione sociale attiva. Eppure, è quello che hanno fatto gli stoici.
Lo stoicismo si sviluppa nell'arco di mezzo millennio, dal III secolo a.C., quando Zenone di Cizio fondò la scuola, fino allo stoicismo 'nuovo' o 'romano' del I-II secolo d.C., che annoverava tra gli altri Seneca e l'imperatore Marco Aurelio. Il nome della scuola deriva dalla Stoa Pecìle, il 'portico dipinto' dell'agorà di Atene sotto il quale il fondatore si intratteneva coi discepoli – non per scelta o vezzo: Zenone, nato a Cizio (Cipro) intorno al 334 a.C., in quanto straniero non poteva possedere una casa. Verso il 300, pochi anni dopo l'apertura del Giardino di Epicuro, iniziò ad insegnare le sue dottrine, che secondo qualche studioso vennero sistematicamente elaborate in opposizione a quelle del 'collega'. In comune, però, Epicuro e Zenone avevano una concezione della filosofia come 'arte del vivere', in cui la logica e l'ontologia sono funzionali all'etica.
Busto di Zenone di Cizio, copia romana del I secolo a.C di un originale greco del III, conservato al Neues Museum di Berlino, in uno scatto di Carole Raddato
Anche per gli stoici lo scopo della vita umana è la felicità, che si raggiunge vivendo 'secondo natura'; ma la natura umana non tende alla ricerca del piacere, come credevano gli epicurei. Al livello più basso, la vita è puro istinto di conservazione animale, ma ciò che è peculiare ed essenziale all'umano è il possesso della ragione, il logos, che oltre ad essere razionalità e principio costitutivo del cosmo si identifica con la divinità. Il mondo è organizzato secondo un piano divino razionale e provvidenziale, in cui tutto ha il suo posto e accade per ferrea necessità. La libertà del saggio, quindi, consiste semplicemente nell'assecondare il Destino, nel seguirlo in modo volontario invece che esserne trascinato: «i fati conducono i volenti, trascinano i nolenti» ha scritto Cleante, successore di Zenone.
In questo quadro, le passioni non sono altro che disturbo, errore, deviazione: derivano tutte da falsi giudizi, per cui diamo importanza e valore a ciò che non ne ha; sono vere e proprie malattie dell'anima. L'unica soluzione, per il saggio, è estirparle totalmente: a-pátheia, apatia, impassibilità. Che però non è indifferenza per tutto, ma solo per ciò che è estraneo alla virtù, intesa come piena e perfetta attuazione del proprio essere razionale. Gli unici veri beni sono quelli che promuovono e potenziano il logos, così come i mali sono ciò che lo danneggiano. Ogni altra cosa – salute, bellezza, ricchezza, reputazione, la vita stessa – è definita letteralmente 'indifferente' (adiàfora).
L'apatia degli stoici, quindi, è radicalmente diversa dall'atarassia di Epicuro: nella prospettiva edonistica degli epicurei, per essere felici basta chiudersi nel Giardino con quattro amici, un po' di fichi e formaggio, ed evitare la sofferenza fisica e psichica; per gli stoici, liberarsi dalle passioni serve a vivere in modo perfettamente razionale (più che indifferenza, è equanimità), il che però non implica affatto rinuncia, estraneità, disimpegno dal mondo, anzi: le leggi e le norme sociali – per Epicuro puramente convenzionali – sono anch’esse una manifestazione del logos, ossia naturali e divine; il saggio quindi sarà necessariamente in sintonia con esse, facendo ciò che è richiesto e conveniente anche in ambito sociale e politico. Gli umani ridiventano animali politici, con obblighi precisi, dettati dalla ragione, verso i loro simili.
Mentre quella epicurea è un'etica del piacere, insomma, quella stoica è un'etica del dovere, che nel suo algido rigorismo giunge sino alla disumanità. Anche la misericordia, secondo Zenone, è una malattia dell'anima, come le altre passioni: «non c’è indulgenza che muova il saggio, né perdono per alcun delitto; perché solo l’insipiente e lo sciocco possono provare misericordia: non è virile il farsi pregare e placare».
Non aveva tutti i torti Luciano De Crescenzo a scrivere che le persone si dividono essenzialmente in epicuree e stoiche: «prima di unirsi in matrimonio» soggiungeva argutamente «non sarebbe male se entrambi i partner, invece di badare al segno zodiacale, s'informassero sull'indice di stoicismo e di epicureismo del futuro coniuge».