SignificatoCosì fine da non poter essere percepito al tatto, né per estensione ad altri sensi; vago
Etimologia dal latino tardo impalpabilis, derivato di palpabilis — a sua volta da palpare ‘accarezzare, toccare’ — col prefisso negativo in-.
Lo sappiamo che è un aggettivo emozionante, e di grande grazia: si attaglia a tessuti, polveri, aure, e ci sforza a immaginare una sottigliezza impercettibile, anche per la finezza del tatto delle mani. Però per capirlo bene dobbiamo intendere meglio il ‘palpare’.
Questo verbo, nel parlare consueto, è piuttosto grosso. Che sia durante un esame medico, che sia davanti al banco della frutta, che sia in situazioni variamente erotiche, il palpare ha sempre un che di invasivo, se non invadente. E però questo è un esito particolare di una storia in cui il palpare è stato soprattutto un’azione delicata.
Il palpus latino era la carezza, e troviamo il suo tenore nel palpito del cuore, nello sfarfallìo della palpebra — che hanno una sensibilità e un’intimità assolute. Insomma, anche se per l’uso normale che ne facciamo il palpare è niente più che un tastare, esso conserva lateralmente un’ineludibile nota di dolcezza, tratteggiando il toccare più sensibile. Non il più delicato: è un toccare intento, attento nella percezione.
L’impalpabile è ciò che, anche quando siamo tesi in ascolto dei minimi rilievi che i polpastrelli siano in grado di comunicarci, sfugge. Ti adoperi a toccare, ma niente: non scopri grani, trame, irregolarità scabrose, quei minimi elementi che possono farti discernere qualcosa. Così sono impalpabili lo zucchero a velo, la farina macinata davvero fino, il talco, certe sabbie — che scorrono fra le dita come acqua. Impalpabili tessuti di seta leggera, tendaggi di mussolina che paiono nebbia, frange di lana di tappeti pregiati.
Ma questo sforzo frustrato e stupito davanti all’impalpabile può anche trascendere il tatto: può estendersi ad altri sensi, e potremo quindi parlare di rumori impalpabili che ci sembra di udire, più lievi del rodere del tarlo, di odori impalpabili che aleggiano in una folata di vento; e ancora, di un’impalpabile aria di casa che ci investe nel Paese così lontano, di sospetti impalpabili, di sentimenti impalpabili che germogliano nel dominio, ancora, della vaghezza.
Una parola che fin dal suono mostra una finezza quasi sgomenta, e che a dispetto della sua sottigliezza si fa notare e sentire in maniera forte e netta.
Lo sappiamo che è un aggettivo emozionante, e di grande grazia: si attaglia a tessuti, polveri, aure, e ci sforza a immaginare una sottigliezza impercettibile, anche per la finezza del tatto delle mani. Però per capirlo bene dobbiamo intendere meglio il ‘palpare’.
Questo verbo, nel parlare consueto, è piuttosto grosso. Che sia durante un esame medico, che sia davanti al banco della frutta, che sia in situazioni variamente erotiche, il palpare ha sempre un che di invasivo, se non invadente. E però questo è un esito particolare di una storia in cui il palpare è stato soprattutto un’azione delicata.
Il palpus latino era la carezza, e troviamo il suo tenore nel palpito del cuore, nello sfarfallìo della palpebra — che hanno una sensibilità e un’intimità assolute. Insomma, anche se per l’uso normale che ne facciamo il palpare è niente più che un tastare, esso conserva lateralmente un’ineludibile nota di dolcezza, tratteggiando il toccare più sensibile. Non il più delicato: è un toccare intento, attento nella percezione.
L’impalpabile è ciò che, anche quando siamo tesi in ascolto dei minimi rilievi che i polpastrelli siano in grado di comunicarci, sfugge. Ti adoperi a toccare, ma niente: non scopri grani, trame, irregolarità scabrose, quei minimi elementi che possono farti discernere qualcosa. Così sono impalpabili lo zucchero a velo, la farina macinata davvero fino, il talco, certe sabbie — che scorrono fra le dita come acqua. Impalpabili tessuti di seta leggera, tendaggi di mussolina che paiono nebbia, frange di lana di tappeti pregiati.
Ma questo sforzo frustrato e stupito davanti all’impalpabile può anche trascendere il tatto: può estendersi ad altri sensi, e potremo quindi parlare di rumori impalpabili che ci sembra di udire, più lievi del rodere del tarlo, di odori impalpabili che aleggiano in una folata di vento; e ancora, di un’impalpabile aria di casa che ci investe nel Paese così lontano, di sospetti impalpabili, di sentimenti impalpabili che germogliano nel dominio, ancora, della vaghezza.
Una parola che fin dal suono mostra una finezza quasi sgomenta, e che a dispetto della sua sottigliezza si fa notare e sentire in maniera forte e netta.