Ineffabile
i-nef-fà-bi-le
Significato Che non si può esprimere con le parole; eccezionale, straordinario
Etimologia voce dotta recuperata dal latino ineffàbilis, che col prefisso negativo in- è derivato di effàbilis ‘che si può dire’, da effari ‘pronunciare, dire chiaramente’, a sua volta da fari ‘parlare’, con prefisso ex-.
Parola pubblicata il 18 Aprile 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Ecco una parola altisonante, anzi altolocata – letteralmente: Dante la introdusse in italiano nella Vita nuova per descrivere la «cortesia» (virtù, grazia) di Beatrice, poi la usò più volte nella Commedia, per riferirsi a visioni ed esperienze paradisiache che trascendevano i limiti del linguaggio. Ma ciò non vieta – semmai favorisce – che questo tipo di parole si presti facilmente ad usi ironici, per cui chiederemo volentieri all’amica se intenda venire alla festa col suo ineffabile nuovo fidanzato.
Si fatica, invece, a scorgerne un uso filosofico rilevante, anche perché la filosofia si fonda proprio sul voler effare anche ciò che sta oltre l’esperienza quotidiana, l’apparenza sensibile. Ci aspettiamo che il concetto di ineffabilità sia centrale in un certo tipo di teologia, per cui Dio sarebbe inconoscibile e dunque inesprimibile a parole, non certo nell’opera di un pensatore che ha studiato ingegneria meccanica e logica matematica, ha insegnato filosofia del linguaggio e scritto un libro intitolato Tractatus logico-philosophicus.
Ma il filosofo di cui parliamo – Ludwig Wittgenstein (1889-1951) – fa decisamente storia a sé: era uno che, andato a Cambridge a seguire le lezioni di Bertrand Russell, un giorno gli chiese a bruciapelo se lo ritenesse un completo idiota, e quando Russell domandò il motivo di tale domanda, rispose che in caso contrario avrebbe continuato a studiare logica, altrimenti avrebbe fatto il pilota d’aereo. Russell ovviamente gli disse che non doveva fare il pilota; ma lui comunque non era proprio tipo da tranquilla vita accademica: oltre ad insegnare (peraltro in modo singolarissimo) a Cambridge, Wittgenstein visse per anni da solo in casupole autocostruite in un fiordo norvegese e poi sulla costa irlandese, fu volontario nella Prima guerra mondiale, maestro elementare in scuole di villaggio austriache, giardiniere in un convento e portantino in un ospedale militare.
Ma insomma, che c’entra la logica con l’ineffabile? Partiamo dalla spiegazione dello stesso Wittgenstein circa l’essenza del suo Tractatus: «Il punto chiave è la teoria di che cosa può essere detto mediante proposizioni – cioè col linguaggio – (e di quel che può essere pensato, il che è lo stesso) e di che cosa non può essere detto mediante proposizioni, ma solo mostrato; questo credo sia il problema fondamentale della filosofia». Secondo Wittgenstein, il linguaggio è l’immagine del mondo, cioè lo rappresenta, lo rispecchia. E per ‘mondo’ intende «la totalità dei fatti, non delle cose». Naturalmente esistono oggetti, cose singole, ma essi sono sempre necessariamente in relazione ad altri oggetti, costituendo degli «stati di cose» o «fatti atomici», cioè semplici; una combinazione di fatti semplici, poi, costituisce un fatto complesso. Ogni proposizione dotata di senso è l’immagine di un fatto o stato di cose, gli inerisce, gli corrisponde strutturalmente, perché mondo, pensiero e linguaggio hanno in comune la struttura essenziale, la forma logica.
Va da sé, quindi, che ad essere dotate di senso siano solo le proposizioni fattuali, descrittive, specialmente quelle delle scienze naturali. Esse sono le uniche a dire effettivamente qualcosa, cioè a corrispondere a fatti del mondo. Tutte le altre proposizioni – come quelle dell’etica, della metafisica, della religione – sono pseudo-proposizioni prive di senso, perché trattano non di cose, fatti, bensì di valori. Ma attenzione: che siano ‘tecnicamente’ prive di senso non vuol dire che siano inutili o insignificanti, anzi: proprio in quanto non sono ‘fatti’, queste cose costituiscono il senso del mondo, che è necessariamente al di là dei fatti, trascendente. La sfera di ciò che non si può dire col linguaggio ma si mostra (con l’azione, la pratica, la testimonianza) – è appunto l’ineffabile: Wittgenstein lo chiama «il mistico», ritenendolo quanto di più importante esista, perché «anche nel caso in cui tutte le possibili domande scientifiche abbiano ricevuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora minimamente toccati».
A questo punto, qualcuno penserà: ma tutte queste speculazioni sul mistico e sul trascendente non sono appunto proposizioni prive di senso secondo i criteri dello stesso Wittgenstein? Certamente, ed egli ne era tanto consapevole che alla fine del Tractatus si legge: «Le mie proposizioni delucidano così: colui che mi comprende le riconosce, alla fine, come insensate, se è salito per esse – su di esse – oltre esse. (Deve, per così dire, gettar via la scala dopo che c’è salito)».
Ma allora, a cosa è servito tanto sforzo? A niente, dirà qualcuno: infatti, anni dopo Wittgenstein capirà che quello descrittivo, denominativo, non è l’unico linguaggio sensato possibile: con la lingua si fanno tante cose – comandare, imprecare, inventare, scherzare, pregare… – ognuna delle quali è un «gioco linguistico» che ha le sue regole, la sua grammatica, nel cui ambito le proposizioni acquistano senso. Ma l’ineffabile rimane ancora tale, nonostante certe proposizioni metafisiche sgrammaticate, nelle quali «il linguaggio fa vacanza», pretendano di attingerlo: alla filosofia spetta sempre il compito di una terapia del linguaggio, per ribadire che «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere».