Metafisica

Le parole e le cose

me-ta-fì-si-ca

Significato Parte della filosofia che studia i principi primi della realtà universale al di là della conoscenza sensibile e dell’esperienza diretta dell’essere umano

Etimologia dal greco metà tà physiká ‘dopo le cose fisiche, naturali’, in riferimento letterale alla posizione successiva alla fisica riservata a tale disciplina nell’opera di Aristotele.

  • «È una serie molto bella, anche se poi prende una piega un po' metafisica.»

Intorno al 1760, Immanuel Kant fu sollecitato da una sua giovane e distinta concittadina ad esprimersi sull’opera di un personaggio assai discusso all’epoca, lo svedese Emmanuel Swedenborg, scienziato passato allo spiritismo che asseriva di comunicare con le anime dei defunti e di far visita ad angeli e demoni nell’aldilà. Il risultato fu un’operetta caustica e brillante pubblicata in forma anonima nel 1766, I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica, nella quale Kant paragonava lo spiritismo alle indebite deduzioni della metafisica del suo tempo: «assurde chimere», «invenzioni» da lasciare «alla sollecitudine di teste sfaccendate». Eppure, nella medesima opera, Kant si dichiarava innamorato della metafisica. Come si spiega?

Il fatto è che la metafisica è una cosa complessa, così complessa da risultarne famigerata: Hegel – uno che se ne intendeva – ha scritto che ‘metafisica’ è una parola «innanzi alla quale (…) ognuno si affretta a scappare, come innanzi a un appestato». Meno drammatica ma più sprezzante, l’opinione comune liquida la metafisica come un insieme di astruse elucubrazioni, un parlare a vuoto di cose inesistenti, del sesso degli angeli. Va meglio in campo artistico, dove la poesia metafisica del Seicento e la pittura metafisica dell’inizio del Novecento avevano in comune l’idea dell’arte come Rivelazione, attingimento dell’Essenza al di là delle apparenze. Ma partiamo dall’inizio.

Tà metà tà physiká (in greco, ‘le cose dopo quelle di fisica’) era come venivano denominati, nella catalogazione delle opere di Aristotele fatta nel I secolo d.C., i 14 libri che seguivano quelli sulla fisica (la natura) e che avevano per argomento la ‘filosofia prima’. Da titolo collettivo di quei libri, Metafisica passò poi ad indicarne anche il contenuto, con la preposizione metà interpretata non più in senso puramente classificatorio, come un ‘dopo’, bensì come al di là, oltre. Non era certo un passaggio illecito: per Aristotele, la ‘filosofia prima’ era antecedente alla ‘filosofia seconda’ (la fisica, la scienza della natura) in senso logico – essendo ontologia, scienza dell’essere in quanto essere e quindi fondamento di tutte le scienze particolari – ma anche in senso qualitativo, quanto al valore, perché era anche teologia, occupandosi della «sostanza eterna e immobile» che è causa prima di ogni movimento.

Questa oscillazione della metafisica tra ontologia e teologia è rimasta una costante lungo la storia del pensiero occidentale, privilegiando l’una o l’altra visione a seconda delle epoche e dei filosofi. In generale, la metafisica di quelli che concepiscono la realtà come divisa tra una dimensione inferiore (sensibile, materiale) e una superiore (spirituale) considerata più vera e fondante è teologica, quella degli altri ontologica. C’è però una terza possibilità, nient’affatto trascurabile: rigettare la metafisica in toto. Tutti i filosofi empiristi, che dall’antichità ai giorni nostri hanno negato l’idea della perfetta razionalità del reale e la sua coincidenza col pensiero, ritenendo impossibile agli umani andare al di là dell’esperienza, affermano che anche concetti come sostanza, causalità e finalità non siano altro – per dirla con Hume – che «sofisticherie ed inganni», costruzioni abusive dell’intelletto.

Ai tempi di Kant, la disciplina era stata sistematizzata da Christian Wolff, che l’aveva suddivisa in metafisica generale (ontologia) e speciale, quest’ultima a sua volta articolata in psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale. Kant, profondamente influenzato dall’empirismo di Hume e dalla fisica newtoniana, negava a queste discipline lo statuto di scienze, perché i loro oggetti (rispettivamente, l’anima intesa come sostanza, il mondo come totalità ontologica, Dio) e le questioni su cui speculano (immortalità dell’anima, causalità e libertà, esistenza di Dio) sono al di là dell’esperienza – nostro imprescindibile orizzonte conoscitivo – tanto quanto la comunicazione con gli spiriti. Ma allora, di quale metafisica era innamorato Kant? Di quella intesa come epistemologia, «scienza dei limiti della ragione», filosofia trascendentale, volta a stabilire le condizioni di possibilità della conoscenza. In questa prospettiva, i concetti che non corrispondono ad alcuna esperienza reale non hanno diritto di cittadinanza: sono pure illusioni.

Un Immanuel Kant innamorato della metafisica. (Midjourney)

Attenzione, però: queste idee sono fuori posto e indesiderate nell’ambito della ragione pura, della teoria della conoscenza, ma la ragione pratica, la morale, è un altro paio di maniche. L’esistenza di Dio, la libertà del volere e l’immortalità dell’anima sono sì illusioni, ma ineliminabili e finanche necessarie. Kant le definisce «postulati», presupposti della morale: senza la libertà, ad esempio, non si darebbe moralità, perché non si può pretendere il rispetto del dovere da chi non sia in grado di autodeterminarsi; e se Dio non esistesse, mancherebbe la garanzia del premio alla vita virtuosa.

Insomma, l’errore delle metafisiche tradizionali consiste per Kant nel trasformare legittime, umanissime speranze in realtà oggettive, nel fare di certe idee o ideali indispensabili alla nostra vita morale oggetti di conoscenza intellettuale. Che poi è esattamente ciò che trionferà subito dopo di lui con l’avvento dell’idealismo, in cui la realtà si risolve nel pensiero e le idee di anima, mondo e Dio sono addirittura fuse in un tutt’uno. Povero Kant.

Parola pubblicata il 04 Ottobre 2022

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.