Sostanza

Le parole e le cose

so-stàn-za

Significato Essenza; parte, aspetto, elemento fondamentale; qualunque materia, omogenea e con proprietà definite

Etimologia dal latino substàntia ‘essenza’, da substàre, propriamente ‘stare sotto, stare fermo’.

  • «Lascia perdere queste sciocchezze, vai alla sostanza!»

Nel linguaggio comune forma e sostanza sono una coppia di opposti: la prima è l’aspetto esteriore, l’apparenza; la seconda è l’essenza, il vero significato, ciò che conta. Non m’importa che la mela che mangio sia bella lucida e perfetta fuori: voglio che sia gustosa; e se la mia ragazza mi dice «sei proprio scemo», il senso letterale delle parole non conta molto quando il sorriso che le accompagna mi dice altro. Poi, certo, ci sono casi – la poesia, ad esempio – in cui la forma è sostanza; e anche in filosofia le cose stanno sostanzialmente così.

Il primo a parlare di sostanza in senso filosofico fu Aristotele. In contrasto con la dottrina platonica, per cui le cose sensibili non sono che brutte copie di forme (modelli) perfette ed eterne, le idee, egli sostenne che ogni ente individuale è sostanza in quanto sinolo, composto indissolubile di materia e forma. Per Aristotele, la sostanza è la prima e fondamentale tra le categorie, perché tutte le altre dipendono da essa: quantità, qualità, posizione ecc. hanno senso non di per sé ma solo in quanto inerenti ad una sostanza, della quale unicamente può dirsi che «non ha bisogno di nient’altro per esistere se non di sé stessa». Dal punto di vista ontologico, però, Aristotele riconosce che non è la materia ma la forma (intesa come essenza, intima natura) il quid per cui una sostanza è ciò che è. Metafisicamente, quindi, forma e sostanza coincidono.

Più avanti, i pensatori cristiani provvidero a distinguere le sostanze create da quella divina, l’unica ad essere effettivamente causa di sé stessa, non bisognosa d’altro per esistere; e anche Cartesio, riconoscendo come sostanze la res cogitans (il pensiero) e la res extensa (l’estensione, i corpi), ammette che lo sono in senso analogico, secondario, perché solo Dio è pienamente autosufficiente sul piano ontologico. Ed è qui che irrompe, con implacabile radicalità, Baruch Spinoza.

Nato nel 1632 ad Amsterdam da una famiglia di ebrei portoghesi in fuga dalle persecuzioni religiose, Spinoza trasse molto da Cartesio, soprattutto l’idea che la realtà vada indagata con metodo rigoroso, matematico-geometrico. Tuttavia, nell’individuare pensiero ed estensione come sostanze, Cartesio secondo lui non aveva osato abbastanza: se si accetta la definizione aristotelica per cui sostanza è ciò che non abbisogna di nient’altro per esistere, bisogna ammettere che solo Dio le corrisponde. Pertanto, l’unica sostanza è Dio, e ogni cosa che esiste non è che un attributo o modo della sostanza divina. Pensiero ed estensione sono soltanto due tra gli infiniti attributi (caratteri essenziali) di Dio, mentre i modi sono determinazioni non necessarie degli attributi divini (i singoli corpi sono modi dell’estensione divina; le idee, modi del pensiero divino).

Da una simile premessa, che comporta una forma radicale di panteismo (coincidenza tra Dio e mondo), derivano conseguenze colossali. Se c’è un’unica sostanza e «tutto ciò che è, è in Dio», allora Dio non crea il mondo, ma ne è causa immanente: il mondo, in quanto insieme dei modi della sostanza divina, è conseguenza necessaria di Dio, così come dalla natura del triangolo conseguono le sue proprietà; non c’è in Dio alcuna volontà o finalità, solo necessità. Quello di Spinoza, è stato scritto giustamente, è il Dio della Rivoluzione scientifica, che nulla ha più a che vedere con quello giudaico-cristiano; un Dio impersonale, che non giudica, non premia e non punisce.

Inoltre, se tutto discende da Dio, tutto è necessario e perfetto così com’è, né potrebbe essere diversamente. Ogni cosa è dominata dalla necessità, nulla è contingente. Per capirlo, però, dobbiamo sforzarci di vedere le cose spassionatamente, sub specie aeternitatis (sotto l'aspetto dell'eternità), ottenendo in cambio la capacità di accettare profondamente il nostro destino, e quindi la felicità (Nietzsche lo chiamerà amor fati, amore per il fato). Non solo: secondo Spinoza, quest’idea, che esclude ogni libero arbitrio («gli uomini credono di essere liberi solo perché sono consapevoli delle proprie azioni, e ignari delle cause da cui sono determinati»), è benefica anche per la felicità sociale, perché genera tolleranza: non possiamo odiare chi ha compiuto azioni malvagie, se riteniamo che non potesse agire altrimenti.

In questo ritratto di mano e datazione ignote, Baruch Spinoza non appare solo affabile e simpatico: è necessario e perfetto così com’è — proprio come te.

Il concetto spinoziano di sostanza ha avuto ben poca fortuna nella filosofia successiva: per Leibniz, la realtà era costituita da una moltitudine di sostanze individuali, le monadi; per Locke il concetto stesso di sostanza era oscuro, per Hume del tutto fittizio. Nel Novecento, poi, a parte l’apprezzamento di qualche filosofo per questo o quell’aspetto del pensiero spinoziano, è stato sorprendentemente – o forse no – uno scienziato a sposarne in pieno la concezione della sostanza. Nel 1929, in risposta ad un telegramma in cui gli si chiedeva se credesse in Dio, Albert Einstein scrisse: «Credo nel Dio di Spinoza che si rivela nell'armonia ordinata dell'esistente, non in un Dio che si occupa dei destini e delle azioni degli esseri umani».

Parola pubblicata il 28 Giugno 2022

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.