Lercio

lèr-cio

Significato Disgustosamente sudicio; turpe

Etimologia etimo discusso, forse dal latino hircus ‘caprone’.

Specie quando la sfera di significato è interessante, e quindi affollata di sinonimi, gli estremi riescono a spiccare. Hanno tutta l’aria di risorse ultime, di incantesimi finali che riescono a mettere insieme un significato supremo con una forma devastante.

Basta sentirlo: lercio. Non può avere solo una superficiale dimensione igienica, è un suono che sfonda subito nella morale. Il nostro orecchio forse già lo subodorava, ma c’è chi lo vuole parente vero di ‘guercio’ in virtù di varianti antiche come ‘sgualercio’, rispetto al quale avrebbe fatto il medesimo percorso ideale (al solito, generosissimo con ogni difetto fisico): lo storto e il bieco sono obliqui ed equivoci, e quindi anche poco raccomandabili, e ça va sans dire sudici, nell’animo e nel corpo. Ma una ricostruzione più classica (non pacifica) lo vuole invece derivato del latino hircus, cioè il caprone, secondo una metafora olfattiva solida, antica e trasparente.

Quindi il concreto e il figurato, nel lercio, non solo hanno un grado sommo, ma procedono praticamente insieme. Da un lato della medaglia troviamo il disgustosamente sudicio, lo schifosamente sporco, il lurido in modo ributtante — ricco di croste, chiose, chiazze, aloni, gromme, untumi di stagionatura inveterata. Dall’altro, con pari meraviglia, troviamo il turpe, il corrotto, il contaminato, qualcosa o qualcuno informato a uno squallore immondo e repellente.

Possiamo parlare di come fosse lercia la casa, quando l’abbiamo comprata, abbandonata in una prostrazione più che laida, disumana; posso sgomentarmi di come da un lezioso pomeriggio ai giardinetti mio figlio riesca a uscire lercio in maniera ineffabile; e allo zio un calice con un’inafferrabile ombra di polvere o calcare parrà insopportabilmente lercio. Ma oltre: sui giornali leggiamo dei dorati, lerci scambi fra gentiluomini che manovrano le sorti del Paese; con la mia virtù non cederò alle tue lerce proposte, almeno per adesso; e ci atterrisce la pratica lercia di mettere il formaggio sulla ribollita.

Lo sentiamo bene: non è pronto e fisiologico come lo sporco, non è forbito come il lordo, non è univoco come il bisunto, né protocollare come l’imbrattato; d’altro canto non è logoro come lo sconcio, elevato come il turpe, né si precipita sui giudizi scandalizzati dell’immorale e dell’indecente. Questo ‘lercio’ gira e rigira nelle nostre contrade da oltre otto secoli; ha attratto e incrostato su di sé l’imo delle concezioni più rivoltate e ripugnate, nella forma limatissima del suono di un conato arrotato e bavoso. Insomma, è un tesoro inestimabile, e ci dà accesso a un’espressività formidabile come il balzo della tigre.

Parola pubblicata il 09 Maggio 2024