SignificatoPrevedere con preoccupazione qualcosa di negativo; impropriamente, prospettare come minaccia, minacciare, ma anche solo ventilare, prospettare
Etimologia dal latino parlato paventare, derivato di pavère ‘temere’.
Ci sono parole che, a leggerle, sai benissimo che cosa significano. La decodifica funziona perfettamente e la tua comprensione del testo fila. Ma se ti chiedono che cosa vogliono dire, o se incalzano chiedendoti «dammi una definizione, usamele in una frase», eccoti a brancolare balbettando ipotesi. Ed è un peccato perché lo sai che sono parole importanti. Se in questo quadro si aggiungono usi impropri, perdersi diventa facilissimo. Ci chiariamo le idee sul paventare?
Paventare è parente dello spaventare, questo è chiaro — ma non direttisimo. Il paventare arriva in italiano oralmente, attraverso una forma non attestata del latino parlato che è ricostruita proprio come paventare, un derivato di pavère ‘temere’. (Lo spaventare deriva da un ipotetico expaventare intensivo di expavere, di significato analogo). Quindi il paventare ce lo teniamo come un ‘temere’. Ma non è un ‘temere’ generico.
Per significare la sfera della gioia abbiamo un manipolo di parole più o meno stiracchiate, il cui senso non è poi troppo determinato (allegria, letizia, addirittura felicità) — ma tanto non importa, secondo il postulato di Luigi Tenco («Perché scrivi solo cose tristi?» «Perché quando sono felice esco»). Invece per la paura abbiamo un florilegio di parole, una tavolozza inesauribile: dallo spavento al terrore, dalla fifa alla strizza, fino al panico, allo sgomento, e ancora avanti, l’ orrore, il raccapriccio, il gelo che agghiaccia, il timore (più compassato), la preoccupazione, il batticuore, l’ansia, e quindi anche il sospetto, la soggezione, tutto l’arcipelago della fobia. E queste sono solo quelle che sono venute a gallada sé, ne abbiamo una folla sterminata, e ciascuna ha la sua specialissima, inconfondibile sfumatura che le fa descrivere (e magari disinnescare) un tratto di paura estremamente specifico. Il paventare non è un ‘aver paura’ qualsiasi — dà alla paura una dimensione di previsione.
È un prevedere con preoccupazione qualcosa di funesto, o più genericamente di negativo. Posso paventare di dover finire il lavoro tutto per conto mio, posso paventare che a quest’ora in pasticceria abbiano già finito i miei biscotti preferiti, e se non vedi la sindaca serena alla manifestazione è perché paventa contestazioni. Se pavento, ho paura per uno scenario futuro che mi si proietta come probabile — con carte in tavola più scoperte e nette di quelle che mette giù l’ansia. Forse anche con meno coinvolgimento emozionale: è una paura più intellettuale — complice la levatura di registro del paventare. Si sente che è una parola ricercata e quindi dev’essere un po’ alto anche il sentimento che descrive.
Però spesso il paventare passa per un ‘minacciare’, un ‘prospettare una minaccia’. L’alleato di governo paventa una rottura, io pavento di non tornare più, la vicina paventa l’intervento della forza pubblica se qualcuno toccherà le fioriere che ha messo per le scale. E non solo: il paventare diventa anche in generale un ‘prospettare’, un ‘ventilare’, un ‘avere in animo’ — e quindi pavento la realizzazione di un nuovo parco pubblico, pavento un’azione contro la crisi abitativa, pavento una soluzione che metta tutti d’accordo.
Il risultato è paradossale: da ‘temere’ si arriva a ‘minacciare’ fino a ‘prospettare’. Anche queste incertezze d’uso contribuiscono a rendere meno accessibile il paventare; al solito, abbiamo la libertà di scegliere su quale sentiero mettere i nostri passi — il sentiero che è figura della norma costituita dalla consuetudine. Se non ci sentiamo di osare, abbiamo un piglio più conservatore o l’estensione semplicemente non ci piace per come traligna dall’etimo, basta ricordare che il paventare è un temere, e in particolare un prevedere qualcosa che si teme.
Ci sono parole che, a leggerle, sai benissimo che cosa significano. La decodifica funziona perfettamente e la tua comprensione del testo fila. Ma se ti chiedono che cosa vogliono dire, o se incalzano chiedendoti «dammi una definizione, usamele in una frase», eccoti a brancolare balbettando ipotesi. Ed è un peccato perché lo sai che sono parole importanti. Se in questo quadro si aggiungono usi impropri, perdersi diventa facilissimo. Ci chiariamo le idee sul paventare?
Paventare è parente dello spaventare, questo è chiaro — ma non direttisimo. Il paventare arriva in italiano oralmente, attraverso una forma non attestata del latino parlato che è ricostruita proprio come paventare, un derivato di pavère ‘temere’. (Lo spaventare deriva da un ipotetico expaventare intensivo di expavere, di significato analogo). Quindi il paventare ce lo teniamo come un ‘temere’. Ma non è un ‘temere’ generico.
Per significare la sfera della gioia abbiamo un manipolo di parole più o meno stiracchiate, il cui senso non è poi troppo determinato (allegria, letizia, addirittura felicità) — ma tanto non importa, secondo il postulato di Luigi Tenco («Perché scrivi solo cose tristi?» «Perché quando sono felice esco»). Invece per la paura abbiamo un florilegio di parole, una tavolozza inesauribile: dallo spavento al terrore, dalla fifa alla strizza, fino al panico, allo sgomento, e ancora avanti, l’ orrore, il raccapriccio, il gelo che agghiaccia, il timore (più compassato), la preoccupazione, il batticuore, l’ansia, e quindi anche il sospetto, la soggezione, tutto l’arcipelago della fobia. E queste sono solo quelle che sono venute a gallada sé, ne abbiamo una folla sterminata, e ciascuna ha la sua specialissima, inconfondibile sfumatura che le fa descrivere (e magari disinnescare) un tratto di paura estremamente specifico. Il paventare non è un ‘aver paura’ qualsiasi — dà alla paura una dimensione di previsione.
È un prevedere con preoccupazione qualcosa di funesto, o più genericamente di negativo. Posso paventare di dover finire il lavoro tutto per conto mio, posso paventare che a quest’ora in pasticceria abbiano già finito i miei biscotti preferiti, e se non vedi la sindaca serena alla manifestazione è perché paventa contestazioni. Se pavento, ho paura per uno scenario futuro che mi si proietta come probabile — con carte in tavola più scoperte e nette di quelle che mette giù l’ansia. Forse anche con meno coinvolgimento emozionale: è una paura più intellettuale — complice la levatura di registro del paventare. Si sente che è una parola ricercata e quindi dev’essere un po’ alto anche il sentimento che descrive.
Però spesso il paventare passa per un ‘minacciare’, un ‘prospettare una minaccia’. L’alleato di governo paventa una rottura, io pavento di non tornare più, la vicina paventa l’intervento della forza pubblica se qualcuno toccherà le fioriere che ha messo per le scale. E non solo: il paventare diventa anche in generale un ‘prospettare’, un ‘ventilare’, un ‘avere in animo’ — e quindi pavento la realizzazione di un nuovo parco pubblico, pavento un’azione contro la crisi abitativa, pavento una soluzione che metta tutti d’accordo.
Il risultato è paradossale: da ‘temere’ si arriva a ‘minacciare’ fino a ‘prospettare’. Anche queste incertezze d’uso contribuiscono a rendere meno accessibile il paventare; al solito, abbiamo la libertà di scegliere su quale sentiero mettere i nostri passi — il sentiero che è figura della norma costituita dalla consuetudine. Se non ci sentiamo di osare, abbiamo un piglio più conservatore o l’estensione semplicemente non ci piace per come traligna dall’etimo, basta ricordare che il paventare è un temere, e in particolare un prevedere qualcosa che si teme.